Recensioni, Teatro — 26/05/2021 at 13:37

Massimo Popolizio, la polvere e i semi dell’odio

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RUMOR(S)CENA – TEATRO ARGENTINA – ROMA – In scena fino al 30 maggio al Teatro Argentina di Roma, “Furore” di e con Massimo Popolizio restituisce al pubblico tutto il vigore e la drammaticità delle pagine di Steinbeck.

La polvere. La banca. Il trattore. La tartaruga. E ancora: Route 66, oggetti da vendere e da lasciare, accampamenti, narratori, alluvioni e così via. Sono queste alcune delle parole-chiave che Massimo Popolizio e Emanuele Trevi hanno scelto per scandire il ritmo di Furore, il reportage teatrale tratto dal capolavoro omonimo di John Steinbeck.

Lo spettacolo restituisce al pubblico i fatti della grande crisi che affossò gli Stati Uniti negli anni ‘30 del Novecento, costringendo centinaia di migliaia di contadini all’esodo dal Midwest verso la costa occidentale del Paese. Il capolavoro del Premio Nobel per la Letteratura, pilastro della produzione letteraria americana di tutti i tempi, nasce infatti dall’esperienza di Steinbeck giornalista, che nel 1936 realizzò per il San Francisco News cinque articoli, corredati dalle immagini fotografiche di Dorothea Lange, sulle condizioni in cui si trovavano i contadini dell’Oklahoma accampati in California.

foto di Federico Massimiliano Mozzano

Il reading di Popolizio da risalto all’aspetto cronachistico più che a quello narrativo, benché ci siano diversi momenti in cui a parlare sono i personaggi steinbeckiani, protagonisti e al tempo stesso testimoni di ciò che accadde in quegli anni. La materialità, la consistenza di quelle storie acquisisce una straordinaria tridimensionalità grazie all’interpretazione fenomenale di Popolizio che offre tutto il suo talento a servizio di un’umanità devastata dalla miseria, dalla fame, dalla mancanza totale di una prospettiva. Il suo corpo, la sua voce, la sua vigorosa presenza scenica sono completamente dediti a incarnare quelle vicende e la vasta gamma di sentimenti istintivi, viscerali: la condizione di coloro che migrano, di cui spesso si parla tendenzialmente in modo astratto (quali sono i diritti, piuttosto che i doveri, cosa dice la normativa, quali sono gli accordi bilaterali, quali le cause e gli effetti e così via) trova finalmente in questo spettacolo una dimensione concreta, fatta di carne e di ossa, di bocche affamate e di mani operose.

L’epica di Steinbeck diventa allora, inevitabilmente, esemplificativa di qualsiasi storia che riguardi il fenomeno migratorio, senza che ci sia alcun bisogno di sottolinearne l’attualità. L’adattamento drammaturgico di Emanuele Trevi, l’accompagnamento musicale di Giovanni Lo Cascio e l’interpretazione di Massimo Popolizio danno perfettamente la misura dell’universalità di “Furore” e riescono addirittura a potenziarne l’efficacia letteraria: le parole di Steinbeck appaiono sul palco, si fanno suono e immagine in un’epifania che avvince e convince lo spettatore fino alla commozione. La totale adesione ai fatti, in questo caso, la chiave che permette di trasporre la letteratura ai fatti: la volontà dell’autore americano è pienamente resa proprio grazie a questa scelta che ne riflette l’intima determinazione.

foto di Federico Massimiliano Mozzano

C’è solo un momento in cui appare l’uomo, lo scrittore, John: la dislocazione scenica di Popolizio che dal leggìo frontale si sposta sul lato destro del proscenio dove c’è un piccolo scrittoio è quasi come una bolla, necessaria e preziosa, che crea un momento di sospensione nel procedere incessante della narrazione cronachistica. Tempus fugit ma le vicende da raccontare sono ancora tante, gli aspetti da evidenziare numerosi: sembra quasi di vederlo, il buon Steinbeck, che si affanna a scrivere quelle pagine, incalzato dallo scorrere del tempo eppure paralizzato dalla portata di ciò che sta descrivendo. Popolizio riesce persino in questo: non si limita, per così dire, a personificare l’opera e tutti i suoi numerosi personaggi – la sua voce è talmente duttile che sembra quasi manipolata artificialmente, è un portento di tecnica e maestria stupefacente – ma dà conto anche dell’anima in travaglio dello scrittore, del suo tormento, del suo furore, appunto, che diventa perciò trasversale ed eterno.

Assistere a questo spettacolo è un diritto-dovere etico verso se stessi e verso l’umanità, indipendentemente dall’aver letto e apprezzato l’opera originaria. Perché ci troverete il furore degli uomini e delle donne cacciati dalle loro case e costretti all’esodo verso terre sconosciute, sfruttati letteralmente fino all’osso, abbandonati alle intemperie e al proliferare delle malattie, annientati dalla totale mancanza di una prospettiva di senso sul presente, prima ancora che sul futuro; c’è davvero tutto il furore di John Steinbeck, giornalista e scrittore magistrale ma soprattutto essere umano che ha visto quel che ha visto e l’ha reso immortale attraverso la scrittura, monito per non dimenticare, per restare vigili, all’erta che la storia, spesso, si ripete. E c’è il furore di Massimo Popolizio, di Emanuele Trevi che ha curato l’adattamento teatrale del testo originale, di Giovanni Lo Cascio, che ne trasmette la potenza attraverso il tocco delle percussioni in scena: un furore incanalato attraverso l’arte del teatro e mediante il dono del personale, vistoso talento dell’interprete romano.

Un furore che attraversa i decenni, insomma, conservando l’originale, consistente impegno civile. L’epica di Steinbeck ha, tra i tanti meriti, proprio quello di riuscire a descrivere perfettamente la zona di confine, il limes sottile tra i morsi della fame e i conseguenti moti di rabbia funesta; la sua messa in scena contemporanea ne risalta l’eternità e l’universalità. Ci si rende conto, infatti, che quella stretta allo stomaco è davvero, alla lunga, intollerabile: l’immagine che chiude lo spettacolo- la giovane Rose, che ha appena partorito un figlio morto, offre il latte del suo seno al vecchio stremato dalla fame- evoca un ricordo cancellato dalla memoria consapevole ma iscritto nella natura senziente dell’intera umanità.

Visto al Teatro Argentina di Roma il 24 maggio 2021

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