Danza — 22/01/2024 at 08:22

Please, Come! di Chiara Ameglio: “Riconoscere se stessi in quel che si guarda”.

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RUMOR(S)CENA – GENOVA – Chiara Amelio è una performer e coreografa genovese, co-fondatrice della compagnia Fattoria Vittadini, nata a Milano nel 2009 da una costola formatasi all’Accademia Paolo Grassi. Attratta da collaborazioni artistiche interdisciplinari, Chiara Ameglio affianca registi, curatori e giovani artisti nel processo creativo e nella realizzazione di spettacoli e nuovi format teatrali sotto varie vesti. Dal 2018 inizia un proprio percorso come autrice, sviluppando svariate performances attraverso le quali inizia la sua personale ricerca che si articola tra corpo, drammaturgia e costume designer.

Con “Indagini sulla mostruosità”, crea la trilogia Trieb_ sostenuta da Fattoria Vittadini, dall’europeo DanceMe/Perypezye Urbane, dal Bando Next e dal Festival MilanOltre. Presenta i suoi lavori tra gli altri, al Teatro Elfo Puccini, al CTB e al Teatro della Tosse. Nel 2020 danza in LOVE|Paradisi Artificiali di Davide Valrosso ed è coreografa per il teatro  (Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Bruni e De Capitani). L’abbiamo incontrata al Teatro della Tosse, Fondazione Luzzati di Genova, il 21 dicembre 2023 alla presentazione, in prima nazionale, del suo nuovo lavoro, Please, Come!, alla Sala Trionfo, dove si è conclusa la prima parte della rassegna di danza ResistereCreare.

Foto di Fabio Mattiolo

Da quale istinto e/o desiderio è iniziata la sua personale ricerca artistica   e quali concetti ha voluto interrogare e perlustrare?

Dopo una decina di anni di lavoro come interprete per coreografi italiani e stranieri, molte delle questioni legate prettamente al corpo, ma anche alla drammaturgia e alla composizione, mi hanno attraversata nel desiderio di scoprire una personale strada di ricerca, dove rielaborare ma soprattutto tradire, miscelare, metterne in dubbio i principi con i quali le avevo apprese, per scoprire nuove modalità. Con l’aspirazione di trovare un mio modo di abitare e attraversare il processo di ricerca contemplandone nuovi slanci. Ho una specie di dipendenza per questo spazio e tempo sospeso che è il processo, che è anche un privilegio dell’artista, per l’attesa di vedere emergere una direzione, farsi da parte e mettersi in ascolto, per quel deserto prima di inseguire l’obiettivo finale, lo spettacolo. Prediligo il primo per natura, ma mi assicuro che il secondo centri sempre quello che per me è “il punto” dell’atto performativo: l’empatia.

PLEASE,Come@MelitiSara

Come ha influito sulla sua sensibilità oggi, la collaborazione con artisti quali Virgilio Sieni, Anna Ajmone, Monica Casadei, solo per citarne alcuni: così diversamente e particolari tra loro?

Visioni che si occupano dello stesso oggetto, il corpo, dovranno pur avere connessioni? La domanda che mi interessa è: quali? Riconnettere continuamente gli elementi tra loro, anche i più opposti, è stato molto generativo. Credo nel raccogliere e moltiplicare, includere la molteplicità molto più che aderire. Ariella Vidach, con la quale ho lavorato diversi anni, mi ha insegnato tutto quello che so sulla tecnica, la “concretezza” del corpo e mi ha passato un concetto importantissimo: il movimento “accade”. Virgilio Sieni, mi ha insegnato come sia fondamentale per un danzatore porre l’attenzione su come pensa, prima ancora di come danza, oltre la maestria nel realizzare le sue visioni coreografiche. Monica Casadei, la mia prima esperienza come interprete, mi ha introdotta in territori che mi hanno profondamente segnata, come la danza Butoh, e insegnato la qualità dell’efficacia. Anna Ajmone il radicale abbandono nella corporeità.  Cito Fattoria Vittadini, collettivo milanese di cui sono co-fondatrice, che mi ha insegnato più d’ogni altri come la diversità rappresenti una ricchezza.

crediti foto Riccardo Panozzo

Corpo utopico, è una definizione che ho attinto dalla sua biografia : “Una ricerca che incarna un corpo e un linguaggio intesi come luoghi della rivoluzione e dell’utopia, togliere la maschera, mostrare ciò che non vuole essere visto”. Quali lavori ha sviluppato su questa base? E che cosa l’ha spinta a coniare un tale concetto?

Mi sono sempre messa alla ricerca di ipotetiche risposte chiedendo sempre suggerimento al corpo. In questo senso il corpo utopico è un corpo che sa immaginare, incarnare l’utopia, l’impossibile, moltiplicando le sue potenzialità dinamiche e espressive, ma anche le fragilità e i limiti. Capovolgere il punto di vista è un atto rivoluzionario. Svelare quel che non vuole essere visto, presuppone un rischio. Abitare l’errore mette in crisi convinzioni acquisite insinuando il dubbio. Mettere al centro il mostro, significa assumere lo stato ibrido, l’incompiuto, il difforme, e accogliere il processo di trasformazione per aprire nuove visioni sul mondo. Sicuramente ho potuto affondare le mani su questi concetti nel progetto coreografico “Indagini sulle mostruosità”, da cui nasce una trilogia: TRIEB_ L’Indagine del 2018, AVE MONSTRUM del 2021 e l’ultimo CALIGULA’S PARTY, liberamente ispirato al Caligola di Albert Camus e che andrà in scena dal 20 al 25 febbraio 2024 all’interno della stagione del Teatro Elfo Puccini di Milano.

Ha creato il concept Mani Ribelli per una casa di moda milanese. Ce la vuole descrivere?

Nel 2022 ho avuto l’opportunità di collaborare con la casa di moda marchigiana Goretti Srl, all’interno del Progetto ARTS, sostenuto dalla Regione Marche, sviluppato nel piccolo borgo di Serra De Conti (AN). La ricerca sul mostro è profondamente legata al costume design, per questo si è potuta sviluppare la connessione con la casa di moda, che opera in modo sinergico con le attività culturali e sociali del borgo, e ha tratto ispirazione non solo dalla ricerca sul mostro ma anche dai materiali e le proposte creative de* partecipanti del laboratorio, per la sua collezione “Mani Ribelli”.  È il bellissimo esempio di una collaborazione che ha attivato in me un certo interesse per il prezioso lavoro di incrocio tra lo sviluppo di un discorso artistico ed una comunità, un territorio.

Please, Come!, è il suo ultimo lavoro presentato in prima nazionale al Teatro della Tosse, Fondazione Luzzati, co-produttore dello spettacolo in collaborazione con Fattoria Vittadini.

Una scena nuda, formata da led orizzontali posizionati lungo tutto il perimetro del palco, e fari discreti, il suo corpo che via via si denuda in parte per poi rivestirsi, movimenti che paiono venire da un lavoro introspettivo, interno, doloroso, ma anche liberatorio. Uno stile che non è soltanto coreografico, ma una narrazione plasmata sul suo corpo che danza.

crediti foto Riccardo Panozzo

Quale pensiero, suggestione, emozione, l’ha spinta ad esprimersi nel modo in cui abbiamo potuto assistere?

Please, Come! lo l’ho immaginato come un grido soffocato, ma anche una richiesta di essere visti, sentiti, ricordati, è una richiesta di aiuto. Tanto disperata quanto vana. La schiavitù moderna rimane ancora oggi un fenomeno sommerso. Nonostante tutto, procede, si trasforma, si adatta, imperterrita. Cosa proviamo quando non facciamo nulla pur sapendo che andrebbe fatto? Quella sensazione disarmante, di impotenza è stata la guida di tutto il processo di creazione. Tematizzare un fenomeno come quello della schiavitù moderna ha significato conquistare una certa distanza. Ho cercato di mettere in campo un corpo spersonalizzato. Non il mio corpo ma un corpo, quasi estraneo anche a me stessa. Ho costruito pratiche fisiche che sono diventate scene, dove il corpo è sottoposto a condizioni estreme di sforzo, fatica, iper-sollecitazione.

Altre scene dove abito delle posture fisiche, archiviate da immagini, fotografie, opere. La postura informa il corpo di chi la vive e chi la guarda, amplifica, suggerisce, fa emergere significati, ricordi, memorie. E poi l’abbandono, la sovraesposizione, l’oggettificazione del corpo. Solo attraverso la concretezza d’esperienza corporea, era possibile attraversare questi concetti, che hanno influito anche nella ricerca musicale e il disegno luci, fondamentali elementi scenici creati da due genovesi, come me, Fabio Bozzetta e Keeping Faka.

Al termine della messa in scena, che tipo di risposta ha sentito di aver suscitato tra il pubblico? E soprattutto, quali sensazioni desiderava giungessero alla platea durante la sua performance così immersiva, nuda, a tratti violenta?

Era un debutto molto speciale per me, dopo tanti anni stavo presentando un mio lavoro come autrice sul palco dove ho fatto il mio primo saggio di danza, la mia famiglia, gli amici … L’emozione mi ha un po’ tramortita, ma ero pronta ad ascoltare e percepire le reazioni delle persone presenti quella sera, consapevole della crudezza del lavoro. So di chiedere molto al pubblico, anche in termini di attenzione.  L’interpretazione soggettiva è il tassello mancante che deve mettere il pubblico, ognuno per sé. Il lavoro non risolve, non risponde, semplicemente dice, dichiara e chiede al pubblico di assumere questa consapevolezza come comunità. Un pugno allo stomaco per certi versi. Non siamo poi così diversi gli uni dagli altri quando si mette in campo il corpo. Riconoscere sé stessi in quel che si guarda. Stupirsi. Conoscere. Sentirsi coinvolti.  Con Santi Crispo, prezioso collaboratore, ci siamo interrogati su come il lavoro non potesse essere un’azione di denuncia, piuttosto un atto per rivelare, fare emergere la pura esistenza di un fatto.

Quanto è importante lo spazio teatrale versus un site-specific ai fini delle sue creazioni?

Adattarsi ai luoghi, abitarli, intromettersi negli spazi vuoti, lasciare che il “dove” preceda il “cosa” nel tentativo di restituire un po’ di quello che ti lasciano… Sono molto sensibile alle riflessioni intorno allo sconfinamento della performance in luoghi atipici, non convenzionali, interrogandomi sul significato che assume questa tensione verso il “ricollocare” l’atto performativo, smuovere qualche abitudine, rimescolare le carte. Inizio quasi tutti i processi di ricerca con residenze artistiche anche per progetti che sono poi diventati spettacoli per il palco, ne ho sempre sperimentato versioni site specific.

È una modalità che trovo nutriente e stimolante.

Quando invece mi sono ritrovata a creare qualcosa direttamente per un luogo, sono stata travolta da un insolito entusiasmo. Mi piace l’idea di destrutturare la fruizione classica, e di farlo partendo dallo spazio, lasciarsi informare dalla biografia dei luoghi.

Anteposto il fatto che non è per nulla necessario raggiungere sempre un grande pubblico, è fisiologico che la danza contemporanea come la musica, l’arte, il teatro ed anche la moda contemporanei, attirino spesso un pubblico cosiddetto di nicchia, almeno in Italia? 

Si, indubbiamente è così. Al netto delle statistiche in merito, sono certamente consapevole che il ruolo che ci si assume dialoga spesso a fatica con una certa leggerezza, tipica dell’intrattenimento. Però sono abbastanza convinta che sia doveroso mantenere vivo questo ruolo dell’arte contemporanea, che sfida il nostro tempo. Chiede un’attenzione e un tempo di contemplazione che ci sfuggono nella quotidianità. Propone sguardi interpretabili. Questo significa che il pubblico non assiste passivamente ma partecipa, anche inconsapevolmente, all’atto performativo con la sua presenza, concentrazione, coinvolgimento o meno, le sue emozioni modificano l’esperienza anche di chi è sul palco.

Chiede la disponibilità di accogliere anche qualcosa che non è rassicurante, comprensibile, controllabile. Nel movimento e nell’ arte, come nella vita, non tutto è spiegabile, chiaro, sensato. Sono certa che tutti facciamo i conti con questo nella quotidianità. Siamo più abituati a farlo di quanto pensiamo. Eppure tutto questo è permeato da una sorta inibizione, a volte paura o volte pigrizia. E non possiamo certo lasciare che sia così.

Le prossime repliche di Please, Come!?

Per ora è in programma una replica a Napoli, il 4 di febbraio 2024, ospitato dal Centro di Produzione campano Korper che dedicherà un focus a Fattoria Vittadini. Mi auguro di riuscire a mostrare il lavoro in diversi contesti e incontrare il pubblico. Una fase importantissima, l’unica che permetta al lavoro di crescere. Sono fiduciosa. Speriamo.

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