Recensioni — 20/01/2020 at 09:08

In principio era il “Diluvio”: storia di un uomo alla ricerca di una nuova patria

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RUMOR(S)CENA – L’UOMO DEL DILUVIO – TEATRO DELLA TOSSE – GENOVA – All’inizio fu “Nessuno può tenere baby in un angolo” uscito dalla mente e dalla penna del duo Simone Amendola e Valerio Malorni, cineasta e drammaturgo l’uno e attore ed autore l’altro, i quali dopo anni di amicizia e di stima decidono di debuttare a quattro mani, con un testo ed una messa in scena che, macchiata di giallo, di rosso e di nero colpiva allo stomaco. Li ritroviamo qualche anno dopo al Teatro della Tosse di Genova, in una veste molto differente, per narrazione e performance con “L’uomo nel diluvio”. In scena, sullo sfondo, una grande tinozza o barca o arca e lui, Valerio Malorni, legge con distaccata ma ironica enfasi alcuni brani tratti dal libro “Tutti a Berlino”, manuale di sopravvivenza per potenziali migranti europei, uscito negli anni 2000, un tempo in cui la metropoli tedesca veniva ancora considerata a misura d’uomo e sulla bocca di tutti: peccato, però, si pensi e si parli in lingua germanica!

A voce alta immagina una conversazione con la moglie in cui snocciola le ragioni dell’espatrio per coloro che, come lui, navigano a vista nel magma del settore culturale, dove il lavoro è sempre faticosamente raggiungibile, poco remunerativo e soggetto a logiche alquanto altalenanti; invoca un presente all’urlo di «… Voglio la domenica della mia vita ed il lunedì del teatro, dei parrucchieri, il martedì delle pizzerie, il mercoledì dei negozi di alimentari … Se vi fosse futuro sarebbe sempre domenica.». Lui stesso cerca una convincente motivazione per andarsene dalla madre patria che lo sta disconoscendo come figlio. E poi eccolo dentro all’arca, in mutande dove affronta il suo personale viaggio della speranza, mentre proiezioni video di vita berlinese ci trasportano insieme a Valerio, in quell’angolo di mondo potenzialmente così avanzato culturalmente in cui la vita è precisa e funzionante, ma il freddo gelido trapassa le ossa, incurante della maglia di lana (se fosse possibile permettersela).

 

 

L’Uomo nel diluvio Valerio Malorni foto di Simone Amendola

Il tempo trascorre tristemente quando una sera, dentro alla cucina del locale ,dove l’espatriato ha trovato il più scontato dei lavori che vanno in tandem con il genio creativo (ovvero il lavapiatti), insomma una di quelle sere in cui « … Avrei usato anche lacrime finte per farmi capire …» l’uomo incappa in un compatriota di sua conoscenza, il quale lo esorta a rappresentare il proprio spettacolo-monologo all’Istituto di Cultura italiana: se non altro ad andare a vedere, a fare qualche sopralluogo. «Ma vi saranno italiani? è la domanda che gli sorge spontanea, ricevendo in risposta: «Ma perché gli italiani vanno a teatro?»

Spinto ormai dalla forza di chi forze non ne ha più, dopo due mesi di freddo, piatti sporchi, ghiaccio nell’anima e su i marciapiedi, malinconia di casa e affetti, così come Noè fu costretto da Dio a salpare con l’arca, Valerio si costringe a visitare il luogo, che peraltro non è niente male e qualche sera dopo, davanti ad una platea composta in maggioranza da autoctoni, eccolo snocciolare il suo monologo in italiano: “Diluvien”. Sarà stata l’intensità e la foga con la quale cercava di farsi comprendere, condita da quella gestualità molto nazional-popolare, la finzione che entra a pieno titolo nella realtà, la comicità a tratti del suo sguardo, il protagonista racconta di come lo scroscio degli applausi interrompe quel silenzio fino a quel momento capace di sottolineare il suo narrare e fuori di lui prende, in forma di diluvio, il pianto vero. Liberatorio. Un misto di sconcerto, gratitudine, ancor più sottolineato dal decretato successo per mano di un critico presente quella sera in sala. Parliamo di un lieto fine annunciato in questa tristo-comica storia di emigrazione? Un giovane Gene Kelly intento a sguazzare in un vecchio frame tratto dal film “Singing in the rain” segna il finale dello spettacolo che, tra il serio ed il faceto, il meta ed il teatrale, la verità e la finzione, ci ha messi, nuovamente, all’angolo. Applausi calorosi al Teatro della Tosse dove il pubblico era tutto italiano.

L’Uomo nel diluvio Valerio Malorni foto di Flavio Boretti

 

Simone Amendola che cosa l’ha spinto  a scrivere insieme a Valerio Malorni due spettacoli così diversi tra loro.

«Tra la scrittura di “Nessuno può tenere Baby in un angolo” e “L’uomo nel diluvio” trascorrono sette o otto anni. Questo significa che cambiano gli stili ma anche le priorità. Nel 2006, quando ho scritto «Baby», l’Italia era tutto sommato un paese migliore rispetto al 2013 quando è nato “Diluvio”. Se prima l’urgenza era raccontare l’uomo comune davanti allo “straordinario”, dopo è diventato il dover essere straordinario di fronte alla realtà inerte. Entrambi sicuramente hanno in comune il tentativo (infinito) di declinare il potenziale dell’essere umano, indagare cioè quando e in che modo è realmente umano. Sono due dispositivi che si rapportano con lo spettatore: in “Baby” l’identificazione passa attraverso l’incubo Kafkiano che potrebbe capitare a chiunque, mentre nel “Diluvio” è il partecipare ad una storia che viene vissuta come vera, quindi possibile per tutti. Entrando nel merito de “L’uomo nel diluvio”, sia io che Valerio Malorni nel 2013 veramente volevamo mollare gli ormeggi, ma poi abbiamo sublimato con un’opera. Anche perché realisticamente cosa ci vanno a fare in Germania uno che recita in italiano e l’altro che scrive in italiano?»

Visto al Teatro della Tosse di Genova  il  13 dicembre 2019

Spettacolo Vincitore Premio In-Box 2014, segnalato come Spettacolo dell’Anno al Premio Rete Critica e Finalista Premio Scenario

 

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