Recensioni — 19/02/2024 at 09:57

Storie di sofferenza e violenza: “Gleba” di Giorgia Filanti

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RUMOR(S)CENA – ROMA – Il nuovo Cristo ha il volto la voce e l’accento romeno di un raccoglitore di pomodori, a Foggia, in un’estate rovente. È in scena nella cornice adamantina di Cappella Orsini, nel cuore della Capitale, “Gleba” di Giorgia Filanti, drammaturgia di Antonio Mocciola, dal libro inchiesta del compianto Alessandro Leongrande, in occasione della rassegna “La scena capovolta”, con la direzione artistica di Marco Medelin. La regista con una torcia, seduta tra il pubblico, in terra, illumina totem, arazzi, stendardi.  Libertà parentale, recita uno. 

Poco più avanti, a distanza braccia, tra ninnoli e antichità, un ragazzo. Il ragazzo. Si alza seminudo come un buon selvaggio. Un Tarzan fanciullesco.  Ma quel che mette a nudo prima che il corpo, e passando per il corpo, è l’anima. Il corpo come un campo di battaglia. Nuda la psiche, nudo il trauma l’orrore e le falle di un’epoca storica, più che il corpo. Narra se stesso, ragazzotto universitario, che per scappare da un padre violento e un sistema che ti spezza, diviene bracciante apolide e rumeno. Ma è italianissimo.

È allora, lì, in quella baracca nella campagna foggiana, che si fa spezzare di più, e per davvero. Si fa spezzare del tutto e in ogni modo possibile, costole comprese, dal caporale Vaslav, che però somiglia al padre padrone, in un delirio confuso tra realtà e biopic. L’ ombra sul palco indietreggia con lui, poi si fa avanti. Lui (il bravo Silvio Pennini, esordiente) non indietreggia mai. Scruta il pubblico, annusa l’aria. Adocchia un punto lontano e prende a narrare. La regista, dotata di un talento maieutico nel rapporto con il giovane attore, prende per mano lo spettatore. È un lavoro fisico profondissimo che scava, lascia cicatrici addosso e parla al pubblico. Si direbbe proprio che scruti il pubblico parlando di sé e rende tutti protagonisti.

Conduce in un viaggio per ciascuno diverso. Il lavoro in regia è misurato, calibrato, sa infondere potenza alla parola tramite il corpo. La parola diviene azione, senza orpelli. Questa storia inumana, selvaggia e aberrante di caporalato, che i caporali sono la specie peggiore, né servi né padroni, e a monte i padri padroni. Uno scenario di violenza domestica, atmosfere lubriche, mefitiche, inenarrabili. Un sistema economico cui i giovanissimi devono genuflettersi… in cambio di niente. Filanti ha svolto un lavoro certosino a partire da un testo molto letterario, che qui si fa sangue, carne, cicatrice, taglio a vivo, persona prima che personaggio o maschera. E non è mai esangue. Innamora o repelle. Affascina o annichilisce. Avvince del tutto. Si narrano le peripezie dei braccianti, soprattutto italiani e romeni, che sono solo fantasmi. Uno spaventapasseri livido, cianotico, anoressico, con la barba lunga e mutande logore addosso e nient’altro. Il ragazzo continua a narrare fino a alzare le braccia e mimare una crocifissione laica. Sono solo fantasmi. Ma a guardarli bene, e senza peccare di narcisismo, un po’ ci somigliano.

GLEBA di Giorgia Filanti. Con Silvio Pennini. Drammaturgia Antonio Mocciola. Luci Diego Pirillo. Aiuto regia Margherita Dongu, Fotografia Marco Lausi           

Visto il 18 gennaio 2024 alla Cappella Orsini di Roma

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