Festival(s) — 18/12/2022 at 19:53

Il presente non esiste interroga chi cerca di trovare una risposta. Apocatastasi del Teatro Akropolis

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RUMOR(S)CENA – GENOVA – Come affrontare una dichiarazione d’intenti che afferma: “Il presente non esiste”, alla luce di quanto è accaduto negli ultimi anni, segnati da una tragedia epocale che ha sconvolto l’umanità stessa a livello mondiale? Interrogativo a cui tutti siamo chiamati a rispondere nel solco di una responsabilità individuale e morale, ancor prima di fornire soluzioni adeguate al fine di restituire quella serenità strappata violentemente da una pandemia (prima) e dal conflitto bellico (ora) che non è isolato e lontano da noi, come molti cercano di far credere. Sono tutti fattori di crisi responsabili, per aver investito l’arte e la cultura in generale, che non possiede nazionalità ed è il miglior modo per diffondere il pacifismo. La cultura dovrebbe essere considerata come l’esperanto. E allora chi deve agire, se non gli stessi operatori e artisti deputati a difenderne la sua stessa sopravvivenza? Se lo sono chiesti anche gli autori del tredicesimo volume di “Testimonianze ricerca azione” edito da Akropolis Libri, l’emanazione letteraria del Teatro Akropolis di Genova. Clemente Tafuri e David Beronio, direttori artistici e filosofi di formazione accademica, spiegano «…come rispondere a questo momento così drammatico, con quali strumenti, dando voce a chi? Cosa riconoscere di quanto accade come nostro, come responsabilmente nostro e non come il pallido riflesso di un racconto che arriva da lontano?».

Una vera e propria sfida lanciata a chi ha delle responsabilità nel merito. «… forse, ora più che mai, è il momento di sfidare l’allucinazione di cui sembra essere preda il nostro tempo, che è quella di vedere sempre e soltanto il presente (abitudine consolidata da parte di molti, specie nell’ambiente artistico al tempo della pandemia, dove era palese l’incapacità di vedere oltre, ndr). È un’allucinazione pericolosa, fatta di istantaneità, fatta di immagini che si incarnano ed esauriscono la realtà intera, fatta di iper-connessione e di iper-comunicazione».

Viene affrontato l’aspetto più critico su cui è necessario approfondirne le conseguenze di una deleteria e patologica tendenza ad apparire senza averne giustificazioni plausibili. «La sfida che ci si pone è quella di contrastare questa allucinazione, per liberare lo sguardo e per ricondurre la coscienza di ognuno ad un principio di realtà che sfugga a quella strana forma di riduzionismo che porta a considerare l’esperienza umana come una sequenza di cellule narrative destinate ad essere condivise attraverso un’immagine».

Gli stessi autori se ne erano occupati nei precedenti volumi definendo come «pangrafia, lo stato in cui ogni cosa esiste solo nella misura in cui è riprodotta e condivisa. Ma la pangrafia ha anche una dimensione temporale precisa e determinata, essa si realizza solo nel primato assoluto del presente che sembra essere l’unico luogo possibile dell’esperienza». Basta scorrere i social, per comprendere come sia diventata ossessiva la modalità di far riaffiorare dal passato immagini da condividere nel presente, riemerse nel giorno stesso della ricorrenza, riportandole al presente. Un modo di affermare la propria immagine. L’utilizzo che se ne fa si è evoluto nel corso del tempo attraverso una mutazione di cui non ci siamo accorti.

Sul numero 1490 dell’Internazionale l’articolo di Ian Bogost, giornalista statunitense, dal titolo “La fine dei social network”, scrive che «…il cambiamento è stato quasi impercettibile, ma ha avuto conseguenze enormi. Invece di facilitare le connessioni esistenti, (…) i social le hanno trasformate in mezzi di comunicazione potenziali. (…), Una rete globale in cui ognuno può dire qualsiasi cosa a chiunque ogni volta che vuole – e in cui tutti pensano di meritare questa possibilità – è una pessima idea di partenza, legata al concetto stesso di social media: sistemi creati e usati per generare un flusso infinito di contenuti».  Il saggio poi affronta un punto fondamentale della ricerca: «Siamo dunque chiamati ad esercitare un pensiero critico nei confronti di questo significato, che in realtà si rivela non essere significativo per nulla.

Anzi è inconsistente», spiegano nel concludere la prefazione del volume, Clemente Tafuri e David Beronio, e nel citare Nietzsche, affidano ai lettori una sollecitazione che va nella direzione auspicata da chi ancora crede sia possibile arginare tale deriva: «…l’arte può sfuggire a tutto questo, il corpo in scena, la musica, possono negare il presente proprio mentre l’opera prende forma davanti al suo pubblico. Possono superarlo, trasfigurarlo, possono far esplodere la tensione che si crea fra il tempo (principio inesorabile di morte) e la vita che sulla scena afferma se stessa e prende forma a volte inaspettata. L’arte può farci intuire, almeno per un istante, il senso delle parole di Giorgio Colli: il presente non esiste». Gli autori del saggio per contestualizzare un’espressione così pregnante di significati nel poterla poi praticare spiegano che «… per far sì che ciò accada bisogna affrontare un ulteriore problema, che già Nietzsche metteva in evidenza: quello di una società che “frequenta teatri e concerti senza che mai al riguardo le siano ricordati dei doveri.»

Colpisce questa dichiarazione del filosofo e che apre ad una riflessione che diventa indispensabile per chi vuole comprendere i processi creativi degli artisti rivolti agli spettatori. E l’analisi fin qui affrontata si indirizza allo studio condotto da Clemente Tafuri e David Beronio per realizzare la loro nuova creazione per la scena “Apocatastasi” visto al Teatro Akropolis di Genova nel corso del Festival Testimonianze Ricerca Azioni XII edizione. Questa sera, domenica 18 dicembre alle 20, va in scena al Teatro Inda nell’ambito del Festival Teatri di Vetro di Roma diretto da Roberta Nicolai, (sezione Oscillazioni) con due protagoniste sulla scena: Roberta Campi e Giulia Franzone.

Il processo creativo – artistico e teatrale che ha permesso di allestire questa perfomance, in cui la commistione dei linguaggi sono in grado di intersecarsi, fino a creare una visione metafisica, di corpi immersi in uno spazio che appare come un luogo segreto e onirico, fa sì che Apocatastasi rapisca lo sguardo e faccia provare un senso di vertigine, qualcosa di simile al perturbante in cui i rimandi sono la risultante di studi approfonditi, così come è spiegato nel capitolo: “Le danze dell’Ade. Appunti per Apocatastasi”. Una ricerca il cui scopo è portare a conoscenza dei lettori i riferimenti storiografici, pittorici, letterari, che hanno ispirato la creazione per la scena. Un vero trattato dai rimandi filosofici la cui importanza letteraria è fondamentale per poter decifrare la perfomance pensata per il teatro. Dalla lettura emergono le fonti a cui i due registi e drammaturghi traggono ispirazione e segnano il percorso intrapreso, dove trovano spazio citazioni illustri come quelle di NietzscheLa nascita della tragedia”, di FreudAl di là del principio del piacere”, Platone “Fedone”, Heidegger “L’arte e lo spazio”. 

Le danze dell’Ade”.   Viene presa in esame la pittura di Luca Signorelli che tra il 1499 e i 1502 realizza gli affreschi nel duomo di Orvieto ispirati all’Apocalisse di Giovanni.  Un artista – spiegano gli autori – «che dipinge la fine dei tempi, il momento in cui il tempo smette di scorrere. E cosa accade allo spazio senza tempo? Pensare lo spazio e il tempo uno senza l’altro ci conduce su un terreno che sfugge alla possibilità della nostra esperienza, ci conduce cioè nelle regioni del pensiero. O dell’immaginazione. Lo spazio e il tempo sono i requisiti necessari perché sia possibile il movimento, perché qualcosa effettivamente accada, ed è forse per questo che le figure di Signorelli appaiono quasi distratte, le posture segnate dall’impossibilità di portare a compimento un’azione. Si susseguono gli interrogativi che vanno nella direzione di cercare di decifrare la misteriosa danza dei quattro uomini raffigurati: Le danze dell’Ade. Nel regno dei morti, esattamente come nella valle del Giudizio. Il tempo cronologico è negato, la vita non scorre verso la sua fine…».

Ci si addentra in un discorso squisitamente filosofico in cui la domanda sui cui viene basata la trattazione dell’analisi: «Ma come può accadere questa danza? Da cosa sono mossi coloro che danzano in un luogo sospeso, un luogo che fatica a definire il suo spazio (…) Perché danzano?» Interrogativi che naturalmente non trovano risposte e non rappresentano il vero intento che si pongono gli autori, quanto, invece, la necessità di comprendere, come l’arte antica possa rivelare nel tempo presente, una possibile ispirazione nella loro ricerca attuale.  Apocatastasi nasce da una ricerca che si è sviluppata per processi di costruzione e analisi, seguendo un iter consolidato che contraddistingue la ricerca espressiva – artistica del Teatro Akropolis – , e si basa su intuizioni che devono essere comprovate dalla sperimentazione continua dei diversi linguaggi. Le danzatrici -performer si avvalgono della sapiente guida registica e rispondono perfettamente a questo dettato. Danzano nel vuoto di uno spazio non identificato reso neutrale, astratto, metafisico, accompagnate da uno straordinario e incalzante tessuto sonoro della Giovine Orchestra Genovese e le musiche originali di Pietro Borgonovo.

Roberta Campi e Giulia Franzone incarnano lo svelamento dei quello che i registi definiscono “espressione del nascosto”.  Vibrano nell’aria, si muovono con gestualità frenetica e repentina, come possedute, in perenne tensione, affinché si materializzi l’assunto teorico di cui rimandiamo ad una successiva disamina che non può ritenersi compiuta qui ora, con l’intento di far comprendere al meglio l’impegno intellettuale e artistico prodotto e da noi osservato nei giorni del Festival.

Visto al Teatro Akropolis di Genova nell’ambito del Festival Testimonianze Ricerca Azione XIII il 4 novembre 2022

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