Editoria Teatrale — 12/06/2018 at 13:03

Tra editoria ed eventi, it’s Caryl Churchill time

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RUMOR(S)CENA – Il prossimo 3 settembre saranno 80 anni tondi dacché la scrittrice londinese Caryl Churchill è al mondo. E, in previsione di una ricorrenza del genere (vien da supporre, al di là della congenita bontà dell’idea), ha ripreso linfa il progetto di pubblicazione integrale in italiano del suo pluridecennale opus drammaturgico, grazie alla casa editrice Editoria & Spettacolo di Spoleto e alle cure premurose della studiosaPaola Bono. Alle quali, dunque, si deve l’uscita di un quarto volume della serie dedicata alle singolarissime drammaturgie dell’autrice inglese e che, nella fattispecie, consistono in sei creazioni scritte fra il 1997 e il 2016. Un sestetto radunato sotto il titolo “Teatro IV”, uscito alle porte dello scorso inverno dopo la precedente terna di omologhe raccolte stampate per gli stessi tipi nel triennio 2013-16, e in cui si ravvisa ulteriormente la carica sperimentale e «Not Ordinary, Not Safe» che ha sempre animato l’articolata scrittura di tale personalità tanto importante e influente a livello internazionale, quanto misconosciuta in Italia.

Caryl Churchill

Non sono tantissime, infatti, le nostrane produzioni teatrali tolte dal copioso e anticanonico insieme di «plays» dell’insigne drammaturga. E, a proposito di ricorrenze, risale giusto a trent’anni fa (16 giugno 1988) la prima assoluta dello spettacolo che Marina Bianchi realizzò dal dramma “Top Girls” per il milanese Teatro di Porta Romana che, ancorché meritorio, rimase a lungo (se le mie ricerche non errano) un caso pressoché isolato in Italia di produzione scenica, perlomeno professionale, derivata dall’ingente corpus testuale della figura in questione. Col trascorrere dei decenni, certo, s’è vista qualche rappresentazione – tra cui quelle di nomi come Carlo Cecchi, Valter Malosti e soprattutto Giorgina Pi – accanto all’impegno fattivo in sede di traduzioni, pubblicazioni e altri eventi di un tenace nugolo di devote e cultori. Tuttavia, fatto cenno di tali eccezioni, si è al cospetto di un panorama sparuto se rapportato alla caratura e portata dell’artista britannica, sebbene in quest’ultima stagione teatrale (approfittando magari della ricordata temperie celebrativa) si stia cercando di favorirne una maggiore conoscenza e valorizzazione nel nostro paese.

Come dimostra con aggregante spirito esemplare il cartellone di appuntamenti «Non Normale, Non Rassicurante», appunto, progettato dalla stessa Bono con l’ensemble dello spazio romano dell’Angelo Mai Altrove. Cartellone in cui si fanno notare due nuove messinscene del 2018 da testi della Churchill: “Settimo Cielo” per la regia dell’anzidetta Pi e “A number” secondo Luca Mazzone, prodotte rispettivamente dal Teatro di Roma e dal Teatro Libero Palermo.

 

 

 

A Number regia Luca Mazzone

Con la variante in traduzione di “Un bel numero”, peraltro, il titolo diretto da Mazzone va di pari passo con la sua pubblicazione nel libro in esame dove, nel giro di cinque sequenze, si sdipana una vicenda dalle tinte thriller che mette in causa un fosco affare di clonazione umana di cui è protagonista uno scombinato padre dappoco e il suo trio di figli: geneticamente uguali, eppure capaci di reazioni assai diverse e spiazzanti davanti alla scoperta di avere dei fratellastri sosia, oltretutto in ampio numero. L’individuale pretesa, quindi, di un’unicità identitaria salta ed esplode; la conquista scientifica appare meno un traguardo nobile del progresso e più un avanzamento di un capitalismo tecnologico così invadente e cinico da penetrare fin dentro le cellule degli esseri, espropriandoli perciò dall’interno per farne una genìa di replicanti: possibilmente conformi e omologati a esigenze di profitto monetario e sterile edonismo.

Tra frasi spezzate e tentennamenti reiterati di battute, sconnessioni espressive e modalità non convenzionali di costruzione formale, l’ardita playwright pare mettere in scena – sull’assito delle pagine da sfogliare – le interferenze psichiche dell’Io che deflagrano allucinate al di sotto della coltre d’accadimenti del nostro spaesante oggi: talmente frammentato, nel reticolato global dell’attuale pianeta iperconnesso, da frastagliare la consistenza e genealogia delle identità soggettive. Come traspare, del resto, dall’ellittico e imprendibile “Questa è una sedia”: un’infilata di sketch di tendenziale incompiutezza, fra personaggi schizzati con fuggevole tratto, incapsulati da una scena all’altra sotto titoli d’apertura rinvianti a temi d’enorme peso ed entità che paiono non c’entrare nulla con quanto, poi, i vari protagonisti dicono e fanno.

Un susseguirsi di pannelli in cui s’apre il divario tra ciò che si annuncia all’inizio e ciò che si scorge di seguito, ma in cui v’è anche tutto lo spazio affinché il lettore costruisca un suo autonomo percorso connettivo e d’interpretazione delle possibili implicazioni e complessità tra estremi siffatti. In fondo, si tratta di un richiamo attivo a pensare e ad approfondire usando la propria testa: per alfine valutare con cognizione di cause senza farsi distrattamente irretire e confondere da certi schemi semplicistici, frasi ed etichette strumentali, propagati da retoriche mediatiche su cui è d’uopo interrogarsi sempre circa gli interessi di parte di cui possono essere opportuniste emissarie o serve.

 

Caryl-Churchill-Teatro-IV

Sulla scia di conclusioni simili, viene allora da collegarsi a un altro script del volume quale “Porci e cani”: dove in modo epidittico e limpido si svela il trucco o, meglio, l’“Invenzione della tradizione” (per citare un noto studio degli storici Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger) che pretenderebbe di asserire l’assoluta mancanza di autoctone sensibilità e pratiche omoerotiche nel nativo sostrato culturale del continente africano. Tradizione, va da sé, falsa e tendenziosa; costruita ad arte da poteri costituiti dall’occidente colonialista che, per motivi di repressiva sorveglianza e controllo, hanno agito sulle precise sfere dell’Erotismo e del Sentimento poiché queste – per loro naturale essenza – afferiscono direttamente all’universo sconfinante della Libertà. Con scrupolo filologico ed ethos civile, la drammaturga si è rifatta a documentate indagini antropologiche per di lì imbastirne le evidenze in un’incisiva partitura di enunciati e affermazioni che, lavorando di concisione e concatenate essenzialità, spogliano tale ingannevole storytelling omofobo dei suoi paludamenti discorsivi e artifici contenutistici.

Diverso, certo, appare il molteplice vociare svagato e interrotto, allusivo e improvvisamente trafitto da potenti squarci distopici, dovuto alle quattro donne di «almeno settant’anni» protagoniste di “Escaped Alone”. D’estate, nel giardino di Sally, tali anziane intavolano sciami di conciliaboli e accenni sulle rispettive esistenze di sostanziali reduci, facendo defluire nella reciproca condivisione open air e vis-à-vis (forse al fine d’alleviarli) i distinti carichi di idiosincrasie e incapacità, paure e ombre, tensioni e rabbie, accumulate attraversando il turbinio della vita. Finché, tutt’a un tratto, esplodono le clamorose visioni apocalittiche della Signora J: esposte in solitaria, inanellando fantasmagoriche concatenazioni di avvenimenti nefasti e d’incredibile ardore immaginativo, quasi le avesse scritte una specie di Michael Ende feroce e incendiario. E, a parte il celebre scrittore tedesco ora citato, mi sovvengono anche certe sceneggiature super-assurde stese da Alessandro Bergonzoni che – in talune situazioni espositive – gli ho visto leggere sfrenando ancor più la sua notoria vena fantastica. Un riferimento mirato, quest’ultimo mio, al comico aut-attore bolognese: giacché si ride non di rado scorrendo le righe, e soprattutto quanto vi sta in mezzo, stilate a sua volta dalla sarcastica Caryl (e non solo, si badi, in questa commedia). Riso che dà rilievo alle sconclusionatezze di cui, nostro malgrado, si è vittime spesso inconsapevoli allorché ci si dispone ad affrontare la quotidianità ostica di un’epoca attuale che, di sicuro, non regala niente. Anzi: semmai mette alla prova fino a limiti inimmaginabili le nostre capacità di umana e intima resistenza, di costruttiva lettura e approccio ottimistico a una realtà di progressive sopraffazioni e catastrofi, vicine e lontane. Passate, presenti e future.

Sicché persino la morte assume i contorni di una resiliente possibilità, alla quale aprirsi senza troppi patemi né vane ansie o ideologismi, provando a calcarne per via metaforica – sulla scorta dell’immaginazione – le sempre attese e inevitabili soglie. Come esorta a fare il dramma “Andiamo” che in tre quadri dissemina in guisa frantumata brani di frasi e dialoghi, inserti e fulminee epifanie di disparati aldilà, a partire però da un aldiquà a cui probabilmente giova un confronto serrato col pensiero di una dipartita finale: nell’ottica di riconsiderare, alla luce onnicomprensiva e definitiva di essa, un intero andamento esistenziale ove riuscire a intravedere con assoluto chiarore cos’è che davvero conta e non conta, cos’è che ha autentico valore e senso per ciascuno di noi.

Qui e ora, non domani né altrove, giacché «Here We Go» come recita l’intestazione originale. E in tal drammaturgia, come in altre sue, l’autrice non indica i personaggi; nell’eroso distendersi delle parole, latita la punteggiatura; le didascalie sono ridotte al minimo e posizionate in rari punti nevralgici. È come se nella testa del lettore, pertanto, si volesse accentuare – e di molto – un suo libero e indipendente processo di composizione registica, di sua messa in scena tra le quinte delle proprie sinapsi: riempiendo vuoti e interlacciando punti in sospeso; spaziando fra virtuali distribuzioni di battute e ruoli, in contesti ambientali e d’atmosfera emotiva tutti da delineare o inventare, sulla base di sensitività ascrivibili solo a se stessi pur al vaglio ispiratore di un’altra autorialità.

Inventiva al potere, insomma. Con spirito analogo a quello dell’ultimo «anti-play» che vado a trattare: “Amore e informazioni”, mirabolante palinsesto di resoconti e interscambi verbali, concepito come un mosaico modulare in cui un’ampia mole di pezzi possono essere combinati e ricombinati con gran margine e discrezionalità da parte dei suoi recitanti, prevedendo pure delle intromissioni a piacere della casualità. Ne sortisce una sciarada vorticosa d’avvicendamenti di scene, personaggi e parziali eventi, idonea comunque a dar vivida forma – come scrive bene Sara Soncini nella sua parte d’introduzione – allo status d’indeterminatezza diffusa che avvolge e permea il giornaliero vivere odierno delle persone. Per quanto è in una simile danza del caos che, invero, può generarsi l’inattesa dinamica di un neo-Big Bang di rigovernabili attività vitali e d’emendate armonie, capace di rompere il pervasivo loop di precarietà individuale e collettiva in cui si agita smarrita l’era presente.

E accingendomi a chiudere soggiungo che, a corredo delle sei opere drammatiche (di cui tre tradotte da Monica Capuani), la curatrice Paola Bono ha dotato il libro di un ricco apparato di analisi, notizie, dati e rinvii documentari. Inoltre, per comporre la sezione introduttiva, accanto a sé e alla detta Soncini ha chiamato a raccolta un novero di intellettuali e registe che hanno affrontato negli anni l’arte dell’audace ottantenne: parlo cioè di Mariacristina Cavecchi, Alessandra Pigliaru, Giorgina Pilozzi, Lisa Ferlazzo Natoli e Mattia Cinquegrani. La pluralità di sguardi comportata dalle loro disamine ha il merito di restituire la versatile natura prismatica della scrittura di Caryl Churchill, facendone risaltare al contempo la peculiare e poetica inafferrabilità in grado, tuttavia, d’indurre i curiosi veri a volerla inseguire e cogliere con animo intrepido: così da ritrovarvi, ogni volta, il gioco ravvivante della sorpresa.

 

 

 

riferimenti e link

Caryl Churchill, “Teatro IV”. “Questa è una sedia”, “Un bel numero”, “Amore e informazioni”, “Andiamo”, “Escaped Alone”, “Porci e cani”, a cura di Paola Bono, Editoria & Spettacolo, Spoleto (Perugia), 2017, pp. 320

 

editoriaespettacolo.com

angelomai.org

teatrodiroma.net

teatroliberopalermo.com

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