Recensioni — 06/04/2018 at 22:46

Quando sono i corpi a “parlare” nella ricerca disperata di amore

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MILANO – Le cinquanta bambole rosa gonfiabili ermafrodite che pendono sopra le teste dei due attori nella scenografia di Katrin Brack (Leone d’oro alla Biennale 2017), sono premessa e sintesi dello spettacolo “The Year of Cancer” ospite fino all’8 aprile al Piccolo Teatro Strehler. Il sesso ripetuto, ossessivo è spasmodico tentativo di un possibile gioco a due; disperata ricerca di una conferma di vita nel raggiungimento dell’orgasmo o delusione frustrante fino allo spegnimento. Lo schema del ripercorrere quelle materiali speranze Anni Settanta poi diventate inevitabili nevrosi, fa da traccia al lavoro del regista fiammingo Luk Perceval, ricavato dal romanzo di Hugo Claus.

 

THE YEAR OF CANCER Het jaar van de kreeft The Year of Cancer ©Sanne Peper

Ciò che però argina il senso talvolta di noia, di déjà vu, è il trattamento che ne ha fatto appunto la regia. La disperazione si spoglia finalmente di qualsiasi connotato psicologico per attaccarsi ai corpi, alla loro lotta, al loro linguaggio quasi infantile di innocenza perduta. Le parole che i due attori dicono in dutch, fortunatamente leggibili nei sovratitoli in italiano, suonano a volte rozze nella loro tecnicità da prestazione manualistica; ma restano scollate dall’ansia che vibra invece nella fisicità, nella nudità. E ancor prima nella splendida partitura eseguita al pianoforte dal vivo da Jeroen van Veen, biondo ragazzone nordico. L’incarnazione, lo svolgimento di quei suoni minimali, delicati o martellanti, tocca a Giis Scholten van Aschat (già in “Persona/Dopo la prova” diretto da Ivo van Hove) e soprattutto a Maria Kraakman: entrambi fanno parte, lui dal 2008 lei dal 2015, del notevole ensemble Toneelgroep di Amsterdam, duttile al punto di lavorare con registi assai diversi tra loro come Katie Mitchell, Ostermeier o Cassiers.

 

THE YEAR OF CANCER Het jaar van de kreeft  The Year of Cancer ©Sanne Peper

Se l’attore protagonista porta tutta l’ironia – cifra forte dello spettacolo – nei goffi tentativi di “danzare” il sesso da uomo maturo egoisticamente attento al proprio piacere fisico, la figura femminile della Kraakman è una vera festa di voglia di vivere prima che di morire (di cancro, che è macabramente anche il segno zodiacale della donna). Il suo corpo si piega a tutte le posture, senza ricorrere al teatro-danza, semmai alla cosciente disciplina della pratica yoga (di cui lo stesso regista è cultore: “Nell’espirazione liberiamo le tensioni, diventiamo leggeri”). Così la Kraakman salta, corre, sembra smembrarsi, si fa musica vivente.

L’obiettivo di portare paura e compassione, cardini del tragico, attraverso il corpo e non le parole è dunque riuscito. Anzi, la parte verbale si confina ad essere non più di una didascalia. La disperazione e la speranza, la vita e la morte, l’abbandono e il terrore di essere abbandonati sono tutti in quei brevi momenti in cui due esseri si toccano, si cercano, non per trovare piacere ma per continuare ad esistere.

Visto al Piccolo Teatro di Milano il 5/4/2018

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