Recensioni — 04/03/2016 at 15:38

Animali da bar, i versi di Carrozzeria Orfeo.

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BELLUNO –Tirate fuori questo figlio di puttana da me!“: urla una donna sul palco. Musica, movimenti che ricostruiscono una storia: quella di alcuni soggetti inchiodati, ognuno per le sue ragioni, ad un bar. Rewind e si torna indietro per ripercorrere frammenti di vita di Animali da Bar. L’atmosfera si costruisce attraverso un linguaggio brusco ed irriverente, trascinato incessantemente fino alla fine: continuando le dinamiche del lavoro precedente –Thanks for Vaselina-,  la Compagnia Carozzeria Orfeo sceglie uno spazio, un bar, che a malapena resiste assieme ai suoi pochi assidui frequentatori in un quartiere invaso dai cinesi. Un luogo d’incontro, un rifugio in cui trovare un modo per sopravvivere. La storia si sviluppa intorno a cinque personaggi -rappresentazioni del sociale non difficili da scorgere intorno a noi- e, come vuole la tradizione aristotelica, ethos e azione si sostengono e si sviluppano a vicenda facendo progredire la narrazione. I personaggi, maschere minutamente delineate fino a diventare trasparenti, fanno del racconto una costruzione chiara e compiuta -non tanto lontana dell’esperienza quotidiana. Il gestore del bar, di cui ne sentiamo soltanto la voce, rimane chiuso a casa spinto dalla xenofobia verso i cinesi che hanno invaso il suo quartiere. Una donna ucraina, Mirka, serve al bar e affitta il suo utero a una coppia borghese di cui conosciamo solo l’uomo, il quale preferisce non tornare a casa perché subisce violenze dalla moglie, un giovane imprenditore troppo ottimista del futuro cerca di portare avanti un’agenzia di pompe funebri. C’è anche uno  scrittore alcolizzato  alla ricerca d’ispirazione perché -obbligato dal suo editore- deve scrivere un romanzo sulla grande guerra ed infine un ragazzo zoppo che ha cercato di suicidarsi in passato senza riuscirci.

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Le tensioni interne ed esterne che scaturiscono dai personaggi mentre ognuno lotta per il proprio benessere personale, annodano e snodano piccoli conflitti nell’intreccio generale. Anche lo spazio cambia al ritmo di queste tensioni creando, a partire da un unico luogo -il bar-, altri microspazi che sviluppano diversi momenti drammatici. Il risultato è una storia riconoscibile e fluente per il pubblico. Gabriele De Luca, drammaturgo e fondatore della compagnia, ha la sua idea ben precisa di come attrarre lo spettatore e sottolinea più volte quest’aspetto della loro produzione: si tratta di una messinscena in stile “pop” –ovvero di consumo, ricreativa, palese, divertente, scorrevole, schematica, convenzionale. Il loro codice, tragicomico e a tratti grottesco, con cui vengono enfatizzati gli aspetti più sconvolgenti, più scuri e sfigurati dell’individuo, viene supportato da un testo veloce e furioso che si stende per quasi due ore, correndo però il rischio di calcare sempre sulla stessa nota. Attraverso la quarta parete i versi di questi “animali” comunicano in una lingua monocorde e troppo frontale. Le convenzioni che determinano la finzione sono sempre rispettate e la sua eccessiva trasparenza non fanno emergere altre suggestioni, aldilà di quanto ci viene consegnato. Manca il mistero, la metafora oltre il ritratto. La storia rischia di rimanere nella superficie come qualcosa reiterativamente detta e sentita.

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Visto il 27 febbraio al Teatro Comunale di Belluno nell’ambito della Rassegna BellunoMiraggi

 

Drammaturgia Gabriele Di Luca
Regia Alessandro Tedeschi, Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti
Con Beatrice Schiros, Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Pier Luigi Pasino, Paolo Li Volsi
Voce: Alessandro Haber

Produzione Fondazione Teatro della Toscana in collaborazione con Festival Internazionale di Andria | Castel dei Mondi

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