Festival(s) — 03/11/2013 at 23:11

L’estate dei festival alla ricerca di nuove identità. A Drodesera-Fies Latella, Castellucci, Teatro Sotterraneo

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Di festival in festival la stagione estiva 2013 offriva una panoramica da nord a sud di come il teatro della contemporaneità segnava una certa sofferenza creativa o per lo meno in difficoltà nella generosa sì offerta, di molteplici produzioni artistiche, ma spesso carenti di soluzioni originali. Il fermento di molte piccole e grandi realtà della cultura teatrale in Italia, sembra progredire pari passo con una scarsa creatività originale e inedita. In ogni programma proposto nelle sedi festivaliere più blasonate e in quelle meno celebri, si è assistito a rappresentazioni spesso solo in forma di studi poco adatti ad una comprensione, a cui sia il critico che lo spettatore, vengono spesso chiamati ad esprimere un giudizio complessivo. Logiche da festival e direttori artistici a cui è difficile sottrarsi, dove il richiamo per un debutto, chiede più la partecipazione di operatori e addetti ai lavori che non un pubblico più vasto e appassionato senza una motivazione commerciale.

Il peregrinare da città in città diventava così un osservatorio privilegiato per capire come stia evolvendo la ricerca e la sperimentazione artistica di molte compagnie e registi, tutti intenti a cercare una loro definizione, un’identità matura e consolidata, una cifra stilistica che caratterizzi stabilmente l’immagine del gruppo o dell’artista. Il bilancio potrebbe corrispondere ad un voto paragonabile ad un sufficiente più (+) con qualche eccezione dove potersi  soffermarsi per un’attenta analisi critica di merito. Come accaduto a Drodesera, il festival trentino dalla lunga esperienza e divenuto negli anni uno degli appuntamenti di richiamo internazionale, (l’edizione 2013 portava il titolo Mein Herz) si è vista la presenza di  anche di Antonio Latella intento a dirigere la Compagnia Stabile Mobile; il quale  ha presentato la sua nuova creazione per la scena intitolata A.H.  Su un impianto apparentemente minimalista quanto  invece viscerale,  un attore solo in scena è intento ad una discesa negli inferi dell’animo umano. Rude quanto lo è il male che l’uomo sa agire verso il suo prossimo e anche nei suoi confronti. In scena in una delle gigantesche turbine dell’ex centrale idroelettrica di Fies (una specie di castello merlato suggestivo), un uomo. L’Uomo. Francesco Manetti, il cui curriculum non è quello dell’attore ma  di un esperto trainer per i movimenti fisici di chi recita abitualmente nella compagnia di Latella.

Francesco Manetti (crediti fotografici di Brunella Giolivo)

Un protagonista assoluto e solo in scena capace di “saturare” l’enorme spazio bianco scenico dove il nulla diventa il tutto in un gioco di contrapposizioni e di rimandi metaforici e virtuali, oltre alla sapienza registica in grado di costruire a piani sovrapposti un lavoro partendo dal consueto stile tipico di Latella : scardinare, rovesciare, ribaltare il senso tradizionale del fare teatro, dove la sintesi drammaturgica si evolva fino ad una progressione vertiginosa di sensi percepiti, di registi frammentati e mescolati tra di loro. Il protagonista diventa incarnazione del suo essere malvagio ai fini di una ricerca ossessiva del potere fine a se stesso. Non segue una linea drammaturgica ben distinta; non si basa su un testo scritto originale o ispirato ma attinge a testi sacri come nel caso della Bibbia, là dove è utile per spiegare come il male sia stato analizzato da un pensiero sia filosofico che umanistico, oltre che religioso. Il concetto alla base di A. H. (Adolf Hitler è l’icona scelta per rappresentare plasticamente il Male, le sue origini, le derive esistenziali, politiche, culturali.

Da qui prende origine questo virus impossibile da debellare secondo Latella e il co-autore Federico Bellini che si dicono convinti di trovare in Hitler stesso la genesi della malvagità, ma non come essere umano nato cresciuto e deceduto infine, quanto un gene da sempre incarnato nell’uomo fin dalla sua comparsa sul pianeta Terra. Francesco Manetti diventa il teorico in scena dove la sua “scienza” chiamata a dare risposte esaustive appare su una lavagna di carta dove l’attore disegna l’alfabeto ebraico. La carta è anche il suo vestito che sarà alla fine stracciato come una veste di un sudario sgualcito. Parla di Tolkien, della Genesi, la “genesi” di tutti i mali del mondo, si trasforma gradualmente attraverso una spirale del gesto (la sua fisicità è prorompente ed emana nello spazio come un gioco visivo di specchi rifrangenti) creando un immaginario di sensazioni emotive che non possono essere rifiutate. Si propaga sulla scena un vorticoso turbinio composto dalla parola usata per far risaltare il gesto drammatico e dirompente.

Con lui un manichino di legno usato dai pittori per esercitarsi nel disegno del corpo. Una sorta di alter ego inerte. Latella prima spiega presenta, poi porta a conoscenza di significati insiti nei testi, nel linguaggio dell’uomo, là dove si annidano i germi dell’aberrazione umana capace di distruggere tutto quello che è vita, poi opera per sottrazione e smonta progressivamente fino a far implodere tutto sulla scena. La carta esplode, lo spazio si riempe di polvere bianca, l’uomo comune si trasforma in una raffigurazione iconica di un Hitler evocato, senza però farne una raffigurazione parodistica o caricaturale. Lo crea l’attore con le dita usate sotto il naso per raffigurare il baffetto nero e sulla testa con quella che potrebbe essere della banale crema di cioccolato per farne il sinistro ciuffo di capelli del dittatore. Vita morte e trasfigurazione si potrebbe dire. Pochi elementi per una rappresentazione monumentale del Male.

Quello capace di uccidere e farsi uccidere a sua volta. Raffiche di mitragliatrice, spari, esplosioni, sono il tessuto sonoro che accompagna la superba prestazione del protagonista intento a farsi carico di un messaggio rivolto a noi, inermi testimoni, di come la violenza si propaghi all’infinito fino alla distruzione finale. L’innocenza non può sopravvivere e l’invocazione finale è un urlo di disperazione: «Padre perché ci hai abbandonato?», dove è impossibile non pensare a quella frase sentita tante volte dall’uomo e rivolta a Dio, quando la morte e la violenza cala su chi invoca la salvezza e la pietà. L’uomo annichilisce, si piega su se stesso e diviene un minuscolo frammento destinato a scomparire nel vuoto di un universo asettico come potrebbe essere una fine della vita per sempre.

Sempre a Drodesera si sono visti i giovani partecipanti del laboratorio che Romeo Castellucci l’anima stessa della Socìetas Raffaello Sanzio aveva condotto due anni prima alla Biennale Teatro di Venezia nel 2011, con l’esito di “Attore, il tuo nome non è esatto”. Nato come formazione didattica formativa, la creazione scenica vista agisce più come esperimento che vera e propria rappresentazione teatrale, dove il regista si è dedicato al tema dell’attore, non come figura capace di interpretare e dirigere il suo ruolo o parte, mancando di una razionale volontà nell’indirizzare il suo agire, quanto, invece, assoggettato ad una forma di possessione proveniente dall’esterno. Castellucci la definisce «potenze che occupano il suo corpo e lo fanno agire. Sono altri corpi del passato, che lo invadono e lo cavalcano».

Teoria suggestiva su cui illustri predecessori di quanto visto realizzato, hanno dato ottime prove di sé al cinema. In scena in un baluginare di luce rossastra stante ad indicare luogo di demoniache presenze, uno alla volta i giovani protagonisti entrano da una porticina per farsi “impossessare” da suoni registrati di voci lugubri provenienti da entità diaboliche. Sono frammenti sonori utilizzati come citazioni di pellicole cinematografiche (un display ne da conto del titolo, regista, anno di realizzazione), e invadono lo spazi fisico e i corpi fisici e mentali dei performer intenti ad enfatizzare quella strana invasione, contorcendosi su se stessi. Simili a crisi epilettiche cessate quando il registratore sulla scena veniva spento dalle mani dei protagonisti in uscita, o la bava uscire dalla bocca creata con la panna spray.

Un nudo femminile capace di perdere tutta la sua grazia per diventare una specie di presenza animalesca. Il risultato non è certo scontato (come nulla di quello che fa la Raffaello Sanzio) ma si ha la percezione di aver assistito ad un’indagine dal risultato finale ancora tutto da definire o in divenire senza aver trovato una sua soluzione organica. La presenza del perturbante aleggia sopra e irrompe alla fine con la voce di Artaud capace di emozionare il pubblico che esce in silenzio.

Di casa alla centrale di Fies il Teatro Sotterraneo è sempre alla ricerca di nuove soluzioni artistiche basate sulla reinvenzione di soluzioni drammaturgiche dove il focus è puntato prevalentemente sul piano dell’ironia se non su quello ancor più tagliente del sarcasmo a tratti volutamente cinico. La scrittura e l’ideazione di Daniele Villa questa volta si è orientata su “Be Legend! Hamlet + Jeanne d’Arc” e “Be Normal!”, performance che appartengono al Daimon Project, legate tra di loro per l’evoluzione dal primo progetto al secondo che mira a “giocare” con personaggi come l’Amleto e Giovanna d’Arco (a cui si è stato aggiunto in seguito Hitler. Evidentemente un personaggio in auge nel teatro di ricerca), assegnati a bambini di sesso maschile e femminile, scelti volta per volta nel luogo della rappresentazione. Cosa vogliono dirci Claudio Cirri e Sara Bonaventura ( e in primis Daniele Villa) quasi dei tutor dei due piccoli interpreti? La biografia storica viene ribaltata e trattata come se tutto quello che è appartenuto al celebre personaggio potesse essere deriso, smontato, ribaltato e rivisto alla luce di un gioco delle parti dove permettersi di raccontare i profili biografici dei personaggi visti in tenera età, così come fa Amleto bambino.

L’innocenza dell’infanzia prima delle tragedie a loro assegnate dal destino o dal loro “daimon” più esattamente. Già Socrate aveva teorizzato l’esistenza di uno spirito guida (daimon in greco significa spirito, un’entità paragonabile ad una specie di angelo custode). Per il filosofo il daimon era la coscienza intima dell’uomo. Colui che accompagna l’uomo durante tutta la sua vita e di solito di sesso opposto a quello del suo umano e in questo interviene anche la teoria psicoanalitica di Jung che lo raffigura come l’espressione visibile dell’anima, salvo eccezioni quando invece può essere dello stesso sesso. L’idea dei Sotterraneo è quella di anticipare ciò che è accaduto prima del suo insorgere destinato a veicolare il personaggio celebre (interessante sarà verificare il bambino Hitler) destinato ad una fine tragica e maledetta. Prima cos’erano Amleto e Giovanna. Il tutto trattato con la consueta leggerezza scanzonata e sempre farcita di citazioni mass mediali come la televisione, un certo genere di format generalisti visti molte sul piccolo schermo.

Ed ecco allora la morte in diretta, ovvero cosa accadrà poi ai due una volta divenuti grandi e protagonista di gesta eclatanti. Con tanto di interviste in diretta con i genitori dei piccoli protagonisti pure loro sottoposti ad improbabili interrogativi. Si sorride e si apprezza la leggerezza con cui i bravi Sara Bonaventura e Claudio Cirri danno vita ad una sequela di gag, culminante poi in Be Normal!, dove loro stessi si arrovellano per cercare di dare una dignità al lavoro stesso dell’attore. Una parodia di come il teatro fagocita chi lo fa e ti costringe a inventarti di tutto per restare a galla. L’esito complessivo fa provare la sensazione di un progetto che avrà bisogno di aggiustamenti in corso d’opera cercando di esaltare ancora le pur felici intuizioni apparse in scena, cercando di imprimere uno scarto repentino ad una costruzione drammaturgica non del tutto incisiva.

 Visti al Festival Drodesera /centrale Fies  “Mein  Herz” nel mese di  luglio 2013

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