azioni performative, Festival(s) — 01/03/2015 at 22:14

Hi>Dance: un festival per parlare di arte e nuove tecnologie

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ROMA – Dal 17 al 22 febbraio 2015 i locali dell’ex lanificio di via Pietralata hanno ospitato la prima edizione di Hi>Dance Festival 1.0 – Dance & technology. Il festival diretto da Francesca Fini, artista interdisciplinare che lavora con i new media, la performance e la video arte, si è proposto diversi ambiziosi compiti. A emergere è stato sopratutto il desiderio di far incontrare la pratica della danza tecnologica con la riflessione teorico-critica su di essa.

La performance che impiega le nuove tecnologie è vittima, soprattutto in Italia, di numerosi pregiudizi; spesso è tacciata di essere solo un grande gioco per intrattenere un indistinto pubblico. Accostare la prassi alla riflessione teorica serve ad abbattere i luoghi comuni e a cercare di dare legittimità a tali pratiche. Se si pensa per un attimo alla storia delle arti performative, ci si accorge come da sempre esse abbiano utilizzato le più svariate tecnologie. La riflessione critica attuale dunque vuole dimostrare come l’uso dei new media nelle arti performative non sia che l’ultimo stadio di un lungo processo di ibridazione tra performance e tecnologia. C’è differenza a livello di significazione tra il videomapping e una scenografia dipinta? Entrambi perseguono lo stesso scopo. Perché dunque continuare a perseverare nella futile dialettica tra teatro e danza “tradizionali” e performance che utilizza i new media? Il festival Hi>Dance è un tassello che si inserisce in questo dibattito e aiuta a renderlo vivo.

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Diversi sono stati gli incontri di riflessione sulle dinamiche tra arte e tecnologia. Particolarmente interessante si è rivelato il seminario “Il gesto tecnologico”, condotto da Raffaele Rivieccio e Giacomo Ravesi, in cui si sono esplorati gli usi delle nuove tecnologie in relazione al corpo e alla danza dalla fine dell’Ottocento a oggi, seguendo due panoramiche: quella cinematografica e quella della video arte e del video teatro degli anni Settanta e Ottanta.
Di rilievo è stato anche il talk “Il corpo aumentato, l’evoluzione culturale e antropologica dei performing media”, condotto da Carlo Infante e dal suo gruppo Urban Experience, che da un lato ha posto l’attenzione sul fatto che oggi il corpo umano, grazie alle nuove tecnologie, si espande oltre i soli suoi confini fisici e dall’altro ha specificato come la tecnologia non sia e non debba mai essere fine a se stessa, ma tramutarsi, grazie all’intervento della cultura, in linguaggio, in quelli che Infante definisce performing media .
Sul versante performance, di particolare rilievo sono stati gli interventi di Isabel Valverde e la sua danza in Second Life, la performance “Skintimacy” di Robert Wechsler e Andreas Bergsland, la performance “Blind” di Francesca Fini e la performance “N 4.0” del gruppo fuse*.
L’intervento di Isabel Valverde si colloca in un terreno attuale, che è quello della rete, del virtuale e degli avatar. In particolare le ricerche della danzatrice e coreografa portoghese si sviluppano nel mondo virtuale digitale di Second Life. Diversi performer collegati da tutto il mondo danno vita a una danza “ballata” dai propri avatar, in cui i movimenti reali si scontrano con la casualità che le tecnologie di rete apportano. Già in passato e sicuramente con delle tecnologie meno performanti delle attuali si sono tentati esperimenti simili, come il famosissimo intervento del gruppo artistico DeskTop Theatre e del loro “Waiting for Godot”, realizzato interamente on-line tramite una chat room 2D.

Isabel Valverde
Isabel Valverde

Questi interventi hanno di sicuro il loro fascino anche se possono apparire un po’ fini a se stessi, perché non lavorano realmente per ibridare danza e tecnologia. In questi tipi di performance si tenta di capire quale sia il grado di performatività della presenza a distanza. Nella realtà dei fatti però non aiutano a trasformare in linguaggio metaforico la tecnologia che impiegano, che si dimostra estremamente pervasiva e riduce la potenza dei linguaggi performativi (danza o teatro), che diventano succubi della stessa tecnologia. A comprovare ciò interviene l’atteggiamento dello spettatore che si trova di fronte a cotali interventi. La sua attenzione si focalizza sulla tecnologia e sulle sue modalità di funzionamento. In molti casi gli è permesso di sperimentarla in prima persona posizionandosi davanti alla webcam e osservando cosa succede agli avatar. Questa presenza pervasiva della tecnologia rischia però di annullare l’interesse dello spettatore per le arti performative, che rischiano così di essere fagocitate dal mondo della rete.
L’integrazione tra danza e tecnologie è ben visibile nel lavoro presentato da Robert Wechsler e Andreas Bergsland. Tre danzatori si muovono su una scena che solo apparentemente è unica. In realtà il palcoscenico è stato suddiviso in tre zone sceniche, individuabili solo a livello acustico. Ad ogni zona, infatti, sono collegati diversi tipi di suono: voci umane, suoni metallici, suoni di elementi naturali come l’acqua. I suoni però non vengono mandati in riproduzione come avviene nelle tradizionali coreografie, ma azionati dai movimenti dei danzatori. Non è quindi la musica a determinare le coreografie ma viceversa. I movimenti dei danzatori sono captati da una camera che li trasmette a un computer. Quest’ultimo li invia a un software che emette i suoni pre-registrati, la cui specificità e durata sono correlate al tipo di movimento: il danzatore può agire un solo dito e quindi si udirà un solo suono oppure agire una serie di movimenti che azionano un mix di suoni.

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La tecnologia sulla scena è praticamente invisibile e inoltre rende più forte la danza, non solo perché è quest’ultima a determinare il suono, ma perché permette al danzatore di lavorare con tutto il corpo, agendo delle parti che tradizionalmente non sono fondamentali nelle coreografie, come il movimento di un singolo dito. La tecnologia, definita “MotionComposer”, è utilizzata da Wechsler anche in contesti sociali, come quelli della disabilità. La possibilità di poter azionare il meccanismo di produzione del suono, muovendo anche un solo occhio, permette alle persone affette da disabilità anche gravi di poter prendere parte a un processo creativo realizzato interamente da loro.
Sull’ibridazione tra body painting e nuove tecnologie interattive lavora invece la performance “Blind” di Francesca Fini. Uno schermo di proiezione, una webcam, un pc, un sintetizzatore digitale e dei colori sono gli elementi scenici che permettono di dare vita a un particolare viaggio sinestesico fatto di colori e suoni. L’essere “blind”, privati della vista, non è una prerogativa esclusiva della performer, che durante tutta l’azione scenica è bendata. Blind è soprattutto l’invito rivolto agli spettatori di socchiudere ogni tanto gli occhi, di non affrontare questo viaggio esclusivamente con la vista ma di azionare tutti i sensi, di sentire, di immergersi nella nuova dimensione che la performer crea, in cui suono e colore si mixano e si determinano a vicenda. La performer ha davanti a sé diverse ciotole di colori che utilizza per dipingere il suo corpo. Una webcam riconosce quattro colori e invia l’informazione a un software che attiva una diversa combinazione di suoni per ogni colore.

I diversi colori digitalizzati vanno a comporre un dipinto sullo schermo di proiezione, fatto di forme geometriche in continuo divenire, che si completa soltanto al termine della performance. Nonostante l’apparato tecnologico sia abbastanza presente in scena perché la webcam è collocata davanti alla performer, il viaggio che affronta lo spettatore lo porta ben oltre dal chiedersi come sia possibile che accadano quelle cose. La performer, tramite le sue azioni, trasforma l’apparato tecnologico che ha davanti a sé in un personaggio col quale dialoga attraverso i suoi movimenti e il quale risponde producendo variazioni cromatiche.
Di particolare interesse è stata la performance del giovane gruppo italiano fuse* “N 4.0”. Evoluzione di un precedente evento performativo, che si basava esclusivamente su interventi di architectural mapping interattivo, “N 4.0” aggiunge agli schemi già sperimentati la componente umana attraverso la danza. Un’enorme e fitta rete digitale proiettata su una superficie piana si scontra con i suoni realizzati in tempo reale e con la danza della performer. Quest’ultima agisce in tempo reale sul sistema di video proiezioni attraverso una kinect cam, che rileva i suoi movimenti e li trasmette a un software che reagisce producendo delle deformazioni sulla rete proiettata. Oltre alla bellezza che tale performance produce, vi è qualcosa di più profondo, che va al di là della sola contemplazione estetica. In “N 4.0” danza e tecnologia trovano un perfetto equilibrio senza che una prevalga sull’altra. Ci si trova davanti a una vera e proficua integrazione tra due linguaggi. In scena non si vede soltanto una rete e una donna che le si muove davanti. La videoproiezione e la danzatrice stanno raccontando una storia, quella di una lotta, le cui ragioni ognuno può figurarsi liberamente.

Una lotta continua tra la rete e l’essere umano, che alla fine, liberatosi dalla prigionia, può aprirsi al cosmo stellato, nel quale si è tramutata la rete dopo la sua distruzione. Di particolare interesse anche il workshop che i fuse* hanno tenuto durante il festival, nel quale non solo hanno mostrato ai partecipanti i segreti delle loro tecnologie ma hanno anche esposto il percorso artistico verso cui sono diretti: una sempre e più profonda interrelazione tra performance e tecnologie di videomapping, in cui entrambi i linguaggi risultino rafforzati proprio dal loro fruttifico incontro.

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