Recensioni, Teatro — 26/07/2022 at 11:21

Campsirago Residenza e Il Giardino delle Esperidi fanno rivere un antico borgo dell’Alta Brianza

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RUMOR(S)CENA – CAMSIRAG0 – (Lecco)- Per parlare del festival Il Giardino delle Esperidi, è necessario almeno accennare alla storia di Campsirago, località del comune di Colle Brianza in provincia di Lecco. Tralasciando le origini storiche di quell’insediamento, documentate almeno fin dall’Alto medioevo, a partire dal secondo dopoguerra questa zona collinare dell’Alta Brianza va lentamente spopolandosi, come è destino di molti borghi agricoli, e negli anni Sessanta le ultime famiglie di Campsirago, per lo più agricoltori e pastori, l’abbandonano

Successivamente, negli anni Settanta vi si insedia una comunità di hippie, che non sembrano però dare un apporto positivo alla conservazione del borgo, ormai in rovina. È solo negli anni Ottanta che, con un progetto serio e organico, la Cooperativa Nuova Agricoltura ridà vita a Campsirago: le case pericolanti vengono rese abitabili; i campi nuovamente coltivati, i boschi ripuliti.

L’inattesa, spontanea rinascita del luogo non sfugge allo sguardo di un teatrante sensibile, Antonio Viganò che, per una decina di anni, a partire dal 1990, vi organizza un festival, come riportano le cronache teatrali del tempo. “Nel panorama dei festival teatrali, quello di Campsirago ha un posto a parte. Questo paesino sperduto fra le colline dell’Alta Brianza, senz’acqua né luce, disabitato, si anima per qualche giorno all’anno di presenze aliene. È il periodo del Festival, diretto da Antonio Viganò e voluto da tre Compagnie teatrali che operano in zona: il Teatro la Ribalta, il Teatro Città Murata, Il Teatro Invito. In quei giorni salgono dalla valle famiglie con bambini, e da tutta la Lombardia giungono studenti di scuole di teatro, funzionari di enti locali, studiosi, giornalisti, normali spettatori accomunati dalla disponibilità ad appollaiarsi su pecari pancacci, ad attendere, a volte fino a notte alta, con una coperta sulle spalle, l’inizio di uno spettacolo che la pioggia, o problemi di puntamento, hanno fatto slittare di qualche ora. E si assiste allora alle più ardite sperimentazioni del teatro di ricerca, alternate a favole per bambini, a stralunati complessi musicali, ad avvolgenti affabulazioni di poesia”. (Sipario, novembre 1997)

In quella stagione, oltre alla prima di Barboni di Pippo Del Bono, si propongono spettacoli d’esordio di realtà allora poco conosciute, come Alma Rosé, della compagnia omonima, o La stanza della memoria, di Scena Verticale. Ma si ricorda anche un’importante operazione, alla cui realizzazione contribuiscono, oltre alle tre sopracitate, altre due compagnie operanti all’epoca in quell’ angolo di Lombardia: Erbamil e Tangram.

Il titolo è Il paese dei vinti: un trasparente riferimento a quel borgo prima del suo spopolamento. Siamo in una particolare giornata del 1958 quando, raccolta attorno a un apparecchio radio a valvole, la gente segue l’elezione di Giovanni XXIII e ascolta il Papa Buono che invia il suo bacio ai bambini.

Oltre alla cronaca di quella pagina di storia, emergono nella memoria di chi vi ha assistito altri frammenti dello spettacolo: il rumore di un improvviso scroscio di pioggia, prodotto facendo cadere dall’alto, su una lamiera, qualche chilo di pasta corta; una ragazza che esibisce con visibile orgoglio un paio di scarpe nuove dal tacco alto, regalate dalla mamma. Lo spazio scenico è l’angusto cortile del Palazzo Gambassi: un edificio a ferro di cavallo risalente al Quattrocento; un ibrido fra dimora patrizia e cascina.

Palazzo Gambassi

Dopo qualche anno di interruzione delle attività teatrali, continuamente minacciate da progetti edilizi poco rispettosi del tessuto urbano originale – così come era successo alla cooperativa agricola –, nel 2004 si stabilisce nel borgo la compagnia Scarlattine Teatro, che darà vita a Campsirago Residenza. Da qui, sotto la direzione artistica di Michele Losi, nasce il festival Il giardino delle Esperidi, giunto quest’anno alla sua diciottesima edizione.

Da qualche giorno si è anche materializzata una felice prospettiva: il comune di Colle Brianza, in partenariato con le istituzioni teatrali presenti a Campsirago, ha vinto il bando del ministero della Cultura per la riqualificazione dei borghi. Ciò consentirà, grazie a un finanziamento di 1600 000 euro, di procedere a iniziative di rigenerazione culturale e di restauro entro il 2026. Questa la buona notizia arrivata in concomitanza con l’edizione del 2022 del Giardino delle Esperidi, iniziata il 23 giugno e conclusasi il 3 luglio scorso

Amleto una questione personale Alvise Crovato

Il programma prevedeva oltre una ventina di eventi (alcuni replicati) fra spettacoli prodotti in residenza, esiti di laboratorio, ospitalità, incontri di discussione e –non ultima – l’impegnativa lettura integrale, in quattro giorni dal primo mattino alla mezzanotte, dell’opera di Cesare Pavese. L’obiettivo di Campsirago Residenza non si esaurisce tuttavia nel ridare vita e visibilità a un patrimonio antropico e culturale estinto, né di creare una vetrina di drammaturgia contemporanea: alla sua attività è sotteso un progetto etico più ardito: la proposta di un rapporto con la natura che la civiltà contemporanea ha dimenticato e sta soffocando.

Molti degli spettacoli proposti implicavano infatti una profonda immersione del pubblico nel contesto campestre, come Amleto. Una questione personale, forse la più impegnativa fra le produzioni di Campsirago Residenza. Il lavoro, per la regia di Anna Fascendini, Giulietta De Bernardi e Michele Losi, nasce da una elaborazione del testo shakespeariano, destrutturato e ricomposto in una serie di episodi e personaggi che attraversano la vicenda, riproposti in ordine non cronologico, con l’importante contributo drammaturgico delle giovani attrici e attori che hanno partecipato a una residenza durata parecchi mesi, da ottobre a febbraio.

Amleto funerale di Ofelia animata da Marialice Tagliavini foto di Alvise Crovato

Non è facile dare conto di uno spettacolo itinerante, ove gli spettatori sostano ogni volta che, nel mezzo di un bosco o in un prato, si materializza un personaggio o una scena dell’Amleto. All’inizio, mentre il sole sta per tramontare, l’azione si svolge su un palcoscenico privo di quinte e fondali, allestito all’aperto dietro Palazzo Gambassi. In mezzo, una sorta di gabbia; sulla destra, due sedie di altezza incongrua e diseguale, come giganteschi ma precari pezzi una di partita a scacchi ormai conclusa: un re e una regina (che, nella scena finale, ritroveremo abbattuti).

Siamo alla corte di Elsinore. Con un’azione corale sostanzialmente mimica e danzata, al suono della marcia nuziale di Mendelssohn, si sta celebrando il matrimonio fra Claudio e Geltrude. Quindi il pubblico si divide in due gruppi, che seguiranno due diversi percorsi, dopo che ognuno avrà indossato una cuffia che restituirà parole, suoni, brani musicali; fra questi, a più riprese risuoneranno le parole e la melodia struggente di Sfiorisci bel fiore di Jannacci. In una delle prime stazioni, ancora nei pressi del borgo, Liliana Benini ci restituisce un duello surreale di Amleto di fronte a uno specchio; più oltre, ormai nel folto del bosco, compare la Geltrude velata di rosso di Benedetta Brambilla; Marialice Tagliavini anima il pupazzo biancovestito di Ofelia, che espone con inconsapevole malizia una giarrettiera su una coscia nuda e ben tornita.

Amleto una questione personale foto di Alvise Crovato

I due gruppi si incroceranno, per poi tornare a dividersi, in uno dei più intensi momenti dello spettacolo, dove il becchino (un irsuto, energetico Sebastiano Sicurezza), ancora sulle note di Sfiorisci bel fiore, si prepara ad accogliere la salma di Ofelia, che il pubblico, sfilandole accanto, cospargerà di fiori. Una scena di forte impatto emotivo, al pari di quella in cui, verso il finale, tutti gli attori cadranno a terra, l’uno dopo l’altro, ingombrando il sentiero che il pubblico, scansandone i corpi, percorrerà per raggiungere nuovamente il palcoscenico.

Simile nello schema drammaturgico (l’uso delle cuffie, la struttura itinerante, l’ambientazione campestre, questa volta nel parco di Villa Besana, a Sirtori) è Hansel e Gretel: una rivisitazione della favola dei fratelli Grimm, rivolta anche a un pubblico infantile, ma che non rinuncia a una radicale destrutturazione del testo: operazione che non sembra tuttavia disturbare i giovani spettatori. Mentore di questo itinerario fra boschi, campi odorosi di timo (e persino con la sosta presso una monumentale, probabile pietra tombale longobarda), è Giulietta De Bernardi travestita da uccello, coadiuvata dai giovani attori già visti nell’Amleto, Barbara Mattavelli e Sebastiano Sicurezza.

Hansel e Gretel Barbara Mattavelli e Sebastiano Sicurezza foto di Alvise Crovato

Anche la lettura poetica a due voci di Gigi Gherzi e Giuseppe Semeraro, in un continuo, complice rimando, si svolge nei boschi, in una radura di conifere presso Olgiate Molgora. Ma il rapporto con un ambiente teatrale non tradizionale, né riconducibile alle forme del teatro di strada, non è meno intenso negli spettacoli che si svolgono nel cortile di palazzo Gambassi. Qui il pubblico si sistema su pancacci digradanti di legno, o su sacchi di iuta disposti sul vecchio acciottolato arrotondato da passi secolari, sapientemente progettato per assecondare il deflusso dell’acqua piovana dai tetti e dalle grondaie. E specialmente affascina la visione che a sud, oltre il basso muretto di pietra in parte coperto di edera, chiude lo spazio scenico: un fondale naturale che, all’imbrunire va illuminandosi gradualmente facendo apparire le centinaia di agglomerati urbani che punteggiano la pianura.

Poiché gli spettacoli cominciano spesso al tramonto, a volte la regia gioca su questo effetto, ritardando l’accensione delle luci su una scena inizialmente illuminata dalla sola luce naturale; ma col procedere dell’azione, capita che gli attori si staglino in controluce sul fondale naturale.

Gherzi e Semeraro foto di Alvise Crovato

Fra i lavori rappresentati nel piccolo cortile, Disprezzo della donna. Il futurismo della specie, un’inquietante antologia d’epoca compilata da Frosini e Timpano; Ho sonno, lo stralunato monologo dal piglio quasi improvvisato di Vittorio Ondedei, integrato dalle canzoni del cantautore Edda; Sergio di Francesca Sarteanesi, un soliloquio agrodolce sugli ordinari conflitti di un rapporto coniugale; Almeno nevicasse, esito del laboratorio di scrittura tenuto dalla stessa Sarteanesi, con l’inattesa esposizione del pregevole seno nudo della performer Margherita Marzocchini, esibito con apparente naïveté.

Ho sonno Vittorio Ondedei con Edda foto di Alvise Crovato

Il festival si chiude con la riproposta di un coinvolgente spettacolo di danza contemporanea, Le mura, del gruppo veneto Arearea, che diciotto anni fa aveva inaugurato la prima edizione del Giardino delle Esperidi. Trascurando di necessità la citazione di altri eventi, pur degni di attenzione, merita qualche riga un’istituzione privata, esterna al festival, ma in qualche modo ad esso contigua.

A metà degli anni Settanta, Franco, reduce da perigliose avventure in Sudamerica, si insedia con un gruppo di amici in un vecchio podere di famiglia abbandonato da anni, e decide di restaurarlo. Dopo una stagione un po’ disordinata (siamo ai tempi delle comuni hippie), del gruppo rimane solo la sua compagna, Grazia, con la quale mette al mondo due figlie, Costanza e Giuditta; lui diventa un esperto apicultore. È molto abile nel lavorare il legno, e la cascina, detta La Fura, restaurata secondo il suo personale gusto creativo, assume un aspetto quasi irreale, fiabesco. Da un paio di anni è diventata una struttura ricettiva, e Il Giardino delle Esperidi la utilizza per sistemarvi i suoi ospiti. Alla mattina, col caffè, il pane abbrustolito e le marmellate fatte in casa, si può gustare il miele raccogliendolo dal favo col cucchiaio, misto alla cera. Per noi, gente di città, un’esperienza unica.

Le mura foto di Alvise Crovato

Spettacoli visti al Giardino delle Esperidi dal 1 al 3 luglio 2022

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