RUMOR(S)CENA – MODENA – Notte Morricone, una produzione di CCN/Aterballetto con la regia e coreografia visionaria di Marcos Morau, in scena al Teatro Comunale di Modena, si muove esattamente in quel luogo impalpabile in cui la musica non accompagna, ma genera il gesto, e il corpo diventa immagine, suono, ricordo. Fin dalle prime battute, lo spettatore capisce che non assisterà a una narrazione lineare. Sul palco, la scena non è uno spazio da abitare, ma un luogo mentale che si disgrega e si ricompone. Morau non racconta, trasfigura, e nel farlo, rende giustizia al mondo poetico di Ennio Morricone, con una danza articolata, spigolosa, onirica, che si fa interprete della notte evocata nel titolo.

Morau non crea semplici sequenze di movimento, scolpisce i corpi nel tempo. Il lavoro coreografico, affidato a sedici interpreti della compagnia Aterballetto, non cerca mai l’illustrazione didascalica dei grandi temi del compositore, dalla malinconia di C’era una volta in America alla tensione di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, al contrario, ogni brano musicale viene attraversato, deformato, assorbito e il risultato non è una trasposizione in danza delle colonne sonore, ma un viaggio nell’eco che esse hanno lasciato nell’immaginario degli spettatori. I corpi dei danzatori sono un susseguirsi di spostamenti nervosi, scatti improvvisi: braccia che disegnano traiettorie oblique come fendenti nell’aria, spalle che si sollevano come respiri trattenuti, bacini che si spezzano lateralmente, movimenti che fanno a tratti da specchio ai pupazzi con cui in più quadri interagiscono, tutti col medesimo sembiante del Maestro. Gli interpreti diventano paesaggi, dissolvenze, sogni in movimento. Non c’è un centro narrativo, né un personaggio dominante, è la coralità a reggere la struttura, come un’orchestra silenziosa. Ogni interprete incarna un frammento della mente del compositore: l’ossessione, la nostalgia, l’istinto ludico, la follia creativa. Si muovono come marionette spezzate, come amanti sospesi, come attori che hanno perso il copione ma continuano a recitare. Ogni gesto è un frammento, un’interferenza. Eppure, tutto si svolge come le melodie di Morricone, che nascono da una nota insignificante per diventare monumento emotivo.

La scenografia di Marc Salicrú è funzionale ma profondamente simbolica; gioca con gli spazi chiusi e le fughe prospettiche. Una stanza diventa corridoio, una parete si trasforma in fondale cinematografico. I materiali sono essenziali, ma la loro funzione è molteplice: contenere, proteggere, isolare, riflettere. Le luci, disegnate con finezza quasi pittorica, sono tagli diagonali che isolano corpi in soliloquio danzato; controluce violenti trasformano i danzatori in sagome. La luce, come la musica, non accompagna, plasma, crea chiaroscuri emotivi. I costumi di Silvia Delagneau sono sospesi in una temporalità incerta, sembrano usciti da un baule di ricordi. Non c’è un’epoca definita, ma piuttosto una sovrapposizione di tempi: i diversi periodi convivono in un cortocircuito visivo che rispecchia la stratificazione musicale della partitura.
La musica, naturalmente, è protagonista ma non in senso tradizionale. I brani di Morricone, pure quelli tratti da canzoni da lui musicate, riarrangiati e diretti da Maurizio Billi, non accompagnano i movimenti, li ispirano, li interrogano, li destabilizzano. In alcuni momenti, il suono scompare, lasciando spazio al respiro, al rumore dei passi, al vuoto. In altri, la musica esplode in tutta la sua ampiezza melodica, e i corpi sembrano sollevati da un vento invisibile. Ogni brano, da Il Buono, il Brutto, il Cattivo a Mission, a Nuovo Cinema Paradiso, è riletto nella sua struttura ritmica e armonica. La danza non si limita a seguire il battito: lo scompone, lo sfida. In molti momenti, il coreografo lavora per contrasto: a una melodia ampia e malinconica risponde con un gesto spezzato, a un crescendo orchestrale accosta una stasi fisica, una sospensione. Morau costruisce così un paesaggio onirico in cui tutto è possibile. Un viaggio che non ha meta, ma che si compie comunque, come certe notti insonni in cui si attraversano i corridoi della mente alla ricerca di qualcosa che non ha nome. Non c’è nostalgia, in questo spettacolo, ma piuttosto un amore profondo per l’immateriale, per ciò che non si può spiegare con le parole. Un amore che si esprime nel dettaglio di un gesto, nel modo in cui una testa si piega, in una carezza a mezz’aria, in una fuga immobile.
Il compositore, figura centrale e presente lungo tutto lo spettacolo con la sua voce, è il demiurgo di questa opera. Tutto accade perché lui sogna. È nei corpi degli interpreti, nei loro spasmi, nei loro sorrisi improvvisi. Come se Morricone stesso fosse diventato coreografia: non più uomo, ma idea. Un’idea che vibra, che fluttua, che commuove.

La regia di Morau, densa e stratificata, non teme la lentezza né l’ambiguità. Alcuni quadri si dilatano fino a diventare quasi statici; altri si sovrappongono in rapidità. E proprio in questa alternanza si rivela la maestria del coreografo spagnolo, nell’abitare il tempo con rispetto, lasciando che la musica suggerisca la durata, che la scena respiri. Lo spettatore non è mai guidato, è lasciato libero di perdersi, di costruire il proprio percorso.
Notte Morricone non è uno spettacolo da sentire. È una dichiarazione d’amore alla potenza evocativa del suono, alla memoria condivisa che il cinema ha depositato in ognuno di noi. Un’opera che si muove nel territorio dell’intuizione che arriva quando meno te lo aspetti. Chissà come avrebbe reagito Morricone? Forse avrebbe sorriso, e poi si sarebbe messo a scrivere, nel cuore della notte.
Visto al Teatro Comunale di Modena il 16 aprile 2025