Danza — 24/05/2025 at 17:54

Tulsa Ballet – Made in America: un trittico per raccontare l’anima americana

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RUMOR(S)CENA – MODENA – Il Tulsa Ballet ha portato in scena un trittico che rilegge con intelligenza e sensibilità l’identità coreutica americana contemporanea, attraversandone tre declinazioni autoriali fortemente connotate: quella rigorosamente neoclassica di Yuri Possokhov, quella intimista e quasi spirituale di Nicolo Fonte, e quella teatrale, ironica, pop di Andy Blankenbuehler. Il risultato è un viaggio caleidoscopico, stratificato e coinvolgente, in cui la danza si fa specchio, rifrazione e metafora dei molteplici volti d’America, senza cedere mai alla retorica o alla semplificazione.

L’apertura è stata affidata a Classical Symphony, omaggio brillante e cerebralmente raffinato alla forma e alla grammatica del balletto classico, che trova nella Sinfonia n. 1 in Re maggiore, Op. 25 “Classica” di Sergei Prokofiev non un mero accompagnamento, ma un contraltare perfetto. Una scelta musicale tutt’altro che casuale: Prokofiev immaginava, con ironia e rispetto, come avrebbe scritto Haydn “se fosse vissuto ai suoi tempi”, e Possokhov si muove sulla stessa lunghezza d’onda, traducendo questa tensione fra tradizione e modernità in movimento. Il titolo rimanda ironicamente alla forma sinfonica settecentesca, ma il coreografo la reinventa con un’energia spiazzante: destruttura la tradizione, la rielabora con spirito giocoso e acuta precisione formale. La sua coreografia è un gioco di specchi tra accademia e contemporaneità, una sfida alle simmetrie e ai codici che diventa esercizio di libertà controllata. I danzatori del Tulsa Ballet affrontano la partitura coreografica con controllo e vivacità stilistica. Belle le accelerazioni, puliti gli equilibri, precisi e musicali gli ensemble, mai rigidi, sempre agili nella trasformazione.

Il virtuosismo tecnico è ben sostenuto, anche se talvolta sembra più funzionale alla composizione che al racconto. Colpisce soprattutto l’energia condivisa, il respiro d’insieme che rende il corpo di ballo protagonista a pieno titolo, in un’opera che chiede coesione più che esibizione individuale. I costumi di Sandra Woodall sono essenziali, geometrici, quasi dischi cromatici. Le luci di David Finn, riprese da Michael Mazzola, disegnano lo spazio con tagli netti. L’effetto è quello di un ambiente cristallino e plastico, che esalta la dinamica e la musicalità del movimento.

Segue Divenire. Qui il paesaggio si fa interiore. Nicolo Fonte costruisce un ambiente emotivo rarefatto, dove il gesto si fa fragile, quasi evanescente, e la danza diventa esperienza meditativa. Le musiche di Ludovico Einaudi, unite alle sonorità evocative di Matteo Saggese e Anna Phoebe, creano un tessuto sonoro ipnotico, che accompagna la metamorfosi lenta e profonda dei corpi. Non c’è ricerca di perfezione qui: il movimento è volutamente spezzato, talvolta interrotto, ma densissimo di significato. I danzatori, straordinari per intensità espressiva, sembrano respirare la musica, sospendendo il tempo con torsioni sofferte, cadute controllate, silenzi del corpo. Fonte chiede loro di essere nel movimento, più che eseguirlo: il risultato è una danza che si fa verità, vulnerabilità esposta. L’uso dello spazio è organico, fluido, privo di gerarchie: le traiettorie si incontrano e si sciolgono come respiri condivisi.

I costumi di Anaya Cuellen, impalpabili, dai toni neutri e naturali, assecondano la poetica dell’indistinto. Le luci di Les Dickert sono un elemento drammaturgico a sé stante: morbide, calde, ovattate, sembrano scolpire l’aria più che illuminare, creando una dimensione sospesa. Divenire tocca corde profonde senza mai cedere al sentimentalismo, e lascia un’impronta emotiva netta. È forse il momento più intimo della serata, quello in cui il gesto smette di essere spettacolare e diventa ascolto.

Tulsa Ballet Divenire, Kate Luber Photography

La chiusura è affidata a Remember Our Song di Andy Blankenbuehler, celebre autore di Broadway, che qui firma un pezzo brillante, stratificato, di forte impatto narrativo. È la parte più dichiaratamente teatrale del trittico, dove la danza si fonde con lo storytelling, la recitazione muta del corpo, l’ironia e una spinta pop. Le musiche, da Regina Spektor a Louis Prima, passando per l’orchestrazione di Greg Anthony Rassen, costruiscono un collage sonoro raffinato, alternando intimità e swing esplosivo. La coreografia traduce ogni frammento musicale in gesto, emozione, atmosfera: i danzatori cantano con il corpo, raccontano storie d’amore, di perdita, di memoria. Non manca una vena autoironica, che si fa leggerezza senza mai diventare superficialità. I costumi disegnati da Lisa Zinni citano l’America degli anni ’40 con un’eleganza giocosa: gonne a ruota, pantaloni a vita alta, accessori rétro che diventano parte integrante della coreografia. Le luci di Dickert ricreano ambienti da jazz club, tra malinconia e brio, e rafforzano il senso di nostalgia lucida che permea l’intera creazione. Blankenbuehler lavora per quadri, flash emotivi, senza mai chiudere una narrazione lineare, a dominare è piuttosto un sentimento di affetto e malinconia, una riflessione sul potere della memoria.

Photographer Bethany Kirby

Con Made in America, il Tulsa Ballet offre un vero e proprio manifesto identitario: tre linguaggi che non si parlano direttamente, ma che si tengono per mano, disegnando una mappa culturale, stilistica dell’America contemporanea. Il filo rosso non è solo la qualità dell’esecuzione ma la capacità della compagnia di farsi interprete di visioni diversissime, senza perdere coerenza né anima. Quello che emerge è un’America non come etichetta, ma come campo aperto di possibilità, memorie, contraddizioni. E la danza, in tutte le sue forme, si conferma linguaggio privilegiato per raccontarle.

Visto il 15/5/2025, Teatro Comunale di Modena

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