ALTRITEATRI, musica e concerti — 20/05/2025 at 08:34

“Grido d’amore. Edith Piaf”: il buio si fa luce

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RUMOR(S)CENA – ROMA – Dal buio alla luce, dalla luce al buio. Così la parabola di Edith Piaf che esplode come un ruggito angelico nella presenza scenica di Gianni De Feo, nel suo riempire il vuoto pieno del palco di misurati gesti d’intensa intelligenza, e di sconfinata maestria canora, dove la voce senza confini del performer sale scende si avvita, ed è insieme canto e apparizione, canto e cantar narrando. Canto d’anima, come era nella Piaf, e protesta vitale, luce contro il buio che sempre la minacciava da dentro.

C’era una volta un fiore. Sì, un fiore. […] piccolo, fuori moda. […] Adesso non c’è più!

[…] Era un piccolo fiore di strada, venuto fuori chissà come da una crepa nell’asfalto

[…] Si sorprese di esserci.

Un fiore di strada. Il buio. Il buio dentro. Ma anche – da piccola – alcuni anni di reale cecità, poi risoltasi, ma che fu il seme che fece nascere precocemente quel suo tastare il mondo alla cieca che era il suo cantare. Quella che ci mostra Ennio Speranza nel suo intelligente montaggio testuale, Grido d’amore. Edith Piaf, è una Edith Piaf certo raccontata, ma sostanzialmente oggetto d’amore e identificazione da parte di un clochard, che vede in lei il proprio riscatto. Così per lui lei non è più semplicemente une ombre de la rue, un ombra. È sì un fiore, un’anima delicata, ma più ancora un angelo, un’apparizione, come testimoniano le ali appese in alto a sinistra sul fondale, dove ciclicamente l’interprete staziona. Un’apparizione e una protezione per dare valore alla sua vita di emarginazione volontaria, “Sono sparito. Mi sono dimenticato di me stesso e ho pregato che il mondo mi dimenticasse”. Perché dimenticarsi di se stessi significa ricordarsi la vita, essere invasi d’altro. E quando sua madre cantava su un disco della Piaf, che lui piccolo ancora non sapeva chi fosse, si illuminava, diventava bellissima. La Piaf per lui allora è quel viso gioioso della madre, e dunque sorgente di vita. E nel suo esilio da vagabondo porta ancora con sé solo quel disco, perché la vita è memoria. Memoria come presente intriso, presenza e assenza, ma irrinunciabile, inevitabile.

“Li chiamiamo ricordi. Non sono che un miraggio. […] un motivetto insistente e parassita […] La memoria si avvicina così tanto alla vita da poterne diventare un costante controcanto. La memoria è il nostro presente […] mi ossessiona dolcemente giorno e notte ….”

Così commenta monologando – se stesso e lei al contempo –  il primo lutto della cantante, che diciassettenne ragazza madre si vede prima tolta dal padre, e poi morta in ospedale, la figlia. La memoria dunque come disperata resilienza, ed Edith Piaf come un fiore che vuole restare, amare, e a cui il clochard fa omaggio del racconto come di un mazzo di fiori, andandolo a posare ad inizio spettacolo su uno sgabello, sotto le ali, anticipando poi il finale, con la visita al cimitero. Edith Piaf, une ombre de la rue, un fiore sorpreso di esistere, un angelo di resilienza. Figlia di una cantante di strada e di un circense, cresciuta fino a 8 anni nel bordello della nonna paterna, e poi per strada, a far la questua col padre contorsionista. Infine dai 14 anni a viver da sola come cantante di strada, in duo, all’armonica, con la giovane sua convivente.

Per approdare a soli 20 anni al cabaret di Louis Leplée, dove esordisce col nome di La Mome Piaf. Da allora una folgorante carriera sempre a cantare, e passando da una storia all’altra, tra cantanti e sportivi, anche dopo il grande dolore per la morte del suo grande amore, il pugile Marcel Cerdan, dopo soli due anni, in un incidente aereo. Per lui scrive “Hymne à l’amour” (1950), ed in coerenza al titolo oppone la vita al lutto, e non smette di cercare e praticare ossessivamente, e cantare, l’amore, man mano con amanti sempre più giovani, come in una folle ubriacatura, e non disdegnando di sposarsi due volte. L’amore sempre, fino all’ultimo matrimonio con Theo, benché paradossalmente proprio con lui scriva e interpreti la canzone À quoi ça sert l’amour. Una meteora, con sempre più amicizie ed ammirazione nell’ambiente artistico della Parigi esistenzalista, tra cui spicca il rapporto di una vita con Cocteau, che la inizia a teatro e cinema, e per lei già nel 1940 scrive Il bell indifferente, breve monologo telefonico al vetriolo sul maschio assente.

Amore e ironia.

Del resto lo spettacolo si apre con Gianni De Feo alla sedia, colorato clochard un po’ pop, con bombetta e occhialini (sembra Zucchero), che canta mellifluo e sardonico Le roi, la favola del re che pretende per sé la donna del marchese, come a sottolineare la crudeltà sottesa ai rapporti. E all’ironia è improntata l’interpretazione sarcastica beffarda – stravaccato sulla sedia – che il nostro fa di Milord, trasformando la timida empatia della prostituta consolatrice in acre sfottò. Un’ironia coerente alla postura della Piaf, del dolore in piedi, di Je ne regrette rien. E che si esprime bene quando il clochard, parlando della sua scelta della strada, parla di una Piaf fatta di slanci ma anche cattiverie terribili. La cui vita era la scena, ma che aiutava gli ultimi, quelli come lui. Che non dimenticava la durezza della strada. Generosa di verità. Umorale. Eccessiva. Un’ironia che qui esplode a prefazione dell’ultima corsa di narrazioni e canzoni prima dell’epilogo, e che tracima mozartianamente quando dice “Volete la storia? Il catalogo è questo?”. Ci si beffa della smania voyeuristica del pubblico? La Piaf come Don Giovanni? Sì. Il Don Giovanni di ‘viva la libertà’.

De Feo si alza, cammina, si posa. Fa pause magistrali. Talora sta nell’angolo della scena nuda, in bagni di luce ora blu ora aranciata. Da spazio e sguardo alla fisarmonica che dietro accompagna, nelle mani sapienti di Marcello Fiorini. A tratti è intimista. A tratti esplode. A tratti accelera frenetico la narrazione. Altre frena, ed è stupore e gesto delicato, come quando dopo la narrazione del funerale esprime la commozione girando, seduto, la manovella di un minuscolo carillon, di cui ha tra le mani il nudo meccanismo (come nuda e fragile è l’anima), anticipando l’interpretazione di “Hymne à l’amour”, che scritta per per la morte dell’amato Cerdan, diventa qui il nostro amore per lei. E a seguire, a breve, da sotto le ali dell’angelo all’avanscena, Un albergo ad ore… Come a dire, “Dopo le morte degli amanti chiudiamo i battenti”. Quella stanza è sacra, la vita di Edith Piaf è sacra. I suoi amori… “Che volete sapere?!”

Il clochard ritorna ora solo se stesso. Porta – come ha sempre sognato – fiori sulla tomba di lei. Al Père-Lachaise dove riposano tanti grandi, ma dove il clochard è colpito dalla tomba di un giornalista, scolpito sdraiato, e alla cui patta dei pantaloni tutti strusciano le mani, come ad un’entità priapica propiziatoria dell’amore. Della serie, per dirla con Quevedo, ‘polvere sarai, ma polvere innamorata’. Viva, oltre la morte!

A questo punto, seduto, il nostro si scatena nel lungo monologo finale, un vortice in crescendo ed accelerando, sempre più spingente. L’immagine della madre che canta sulle note della Piaf diventa l’inno all’artista che fa rifiorire le vite mediocri. Il cantare. La memoria. Della madre e della Piaf. Essere passati sulla terra. Gridare l’amore. La Piaf come simbolo della vita e del valore di tutti.

E come il Baudelaire di Il cigno

“Je pense  aux captifs, aux vaincus ! … à bien d’autres encor !”

così qui il duo Gianni De Feo – Ennio Speranza

“Brindo […] a chi ha conosciuto la gloria e a chi l’ha subita, a chi non l’ha mai assaporata e a chi di gloria è morto, a chi ha mollato e a chi non ha mai smesso di crederci, a tutti quelli che hanno camminato a due metri da terra e a chi non è mai riuscito ad aprire le ali, a chi ha fatto la guerra e a chi ha vissuto solo d’amore, a chi si è distrutto il cuore e a chi s’è distrutto il fegato e le vene, e le mani. Brindo a me che sono qui. Brindo a te che sei qui.”

E così il clochard non è più il clochard, la Piaf la Piaf. Sono tutti noi, e l’inno all’arte diventa inno al fiore della vita, quale che sia. Ed il pubblico, già plaudente a scena aperta più volte, ora dilaga entusiasta.

Grido d’amore. Edith Piaf

Spettacolo musicale di e con Gianni De Feo, testo di Ennio Speranza. Regia Gianni De Feo. Alla fisarmonica Marcello Fiorini. Scene e costumi Roberto Rinaldi Arrangiamenti e musiche originali Marcello Fiorini. Disegno luci Giorgio Rossi. Foto e grafica Manuela Giusto

Visto al Teatro di Villa Lazzaroni a Roma il 9 maggio 2025

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