musica e concerti — 16/06/2025 at 06:44

Orfeo ed Euridice: un viaggio fra ombra e mito

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Prima dell’apertura ufficiale il Monteverdi Festival 2025 è stato inaugurato da un evento speciale: Cecilia Bartoli con Orfeo ed Euridice di Gluck, tratto da Le feste d’Apollo, nella rarissima versione di Parma del 1769. È questo un affresco musicale concepito da Gluck in tre atti unici per celebrare le nozze di Ferdinando di Borbone e Maria Amalia d’Austria.  Questa partitura costituisce il terzo atto dell’affresco ed è più scarna e compatta dell’omonima opera dell’autore, che qui rinuncia a preziosismi barocchi e a sperticate acrobazie virtuosistiche. Gluck ha riscritto la parte di Orfeo per voce femminile, ha cesellato alcuni numeri orchestrali e ha reso più fluida la struttura drammaturgica, in linea con il gusto e la liturgia della corte borbonica.

Cecilia Bartoli ha guidato il pubblico attraverso il cuore del mito di Orfeo ed Euridice, ha incarnato l’aspetto tragico e ieratico con una concentrazione, una grazia e una furia controllata da lasciare storditi, offrendo un Orfeo interiorizzato, cupo, trattenuto, lontano dalle enfasi, che pare sorgere dal fondo della terra con la voce di una creatura mitologica, dolente e sola. Sin dalle prime battute, ha plasmato un Orfeo che è corpo vibrante di perdita. La sua voce calda ha acquisito una profondità quasi strumentale, interrogava il mondo con un suono che pareva salire da un abisso, eppure capace di carezze improvvise: ha sussurrato, scavato, trafitto. In un gesto teatrale di potenza simbolica, la cantante è scesa dalla ribalta, ha attraversato la platea, passando tra le file illuminate da una luce improvvisa e tenue, in un atto d’invocazione.

È stata Orfeo, il mito, e insieme, il perdente. Se in alcuni momenti si è potuto percepire una leggera stanchezza vocale, non ha mai compromesso l’espressione, grazie a una tecnica di appoggio magistrale. Non ha mai cercato l’effetto, ha spezzato i silenzi, ha inciso ogni parola. La sua voce ha oscillato tra il parlato e il grido tragico senza mai perdere musicalità, con teatralità tutta interiore.

Cecilia Bartoli Mélissa Petit crediti foto Lorenzo Gorini

Nel doppio ruolo di Euridice e Amore, Mélissa Petit ha offerto una prova sorprendente per chiarezza stilistica, flessibilità, grazia e controllo. Non è facile far convivere nella stessa serata la fragilità implorante della sposa e la levità radiosa del dio. Petit ci riesce con eleganza. La sua Euridice è apparsa profondamente umana, di una verità commovente, piena di domande, spaesata. Il fraseggio è stato dolce, ma vibrante; le dinamiche, curate fino al dettaglio. Ha interpretato una donna impaurita, in cerca di risposte, di amore, di verità. Nella scena in cui chiedeva a Orfeo perché la evitasse, Petit ha dosato con perfezione tensione e tenerezza. La voce si è tesa, in bilico tra rabbia e bisogno d’amore, e gli acuti, mai forzati, sono emersi come richiami d’aiuto.

Nei panni di Amore, Petit si è trasfigurata in una presenza leggera e ironica. Ha dosato la voce, ora più chiara, quasi argentea, ora più eterea, con agilità sorridente che si è perfettamente contrapposta alla densità di Cecilia Bartoli. La sua teatralità, come di una divinità bambina consapevole del proprio potere eppure capace di empatia, è stata tutta giocata sul gesto e sul colore, un cambio vocale sottilissimo ma percettibile.

Mélissa Petit Cecilia Bartoli crediti foto Lorenzo Gorini

Il Coro Il Canto di Orfeo, preparato con mano sapiente da Jacopo Facchini, è stato uno dei cardini emotivi dell’intera architettura. Non ha svolto solo la funzione di insieme vocale, è stato un personaggio collettivo, un respiro plurale. La sua è stata presenza drammatica, coro tragico nel senso greco del termine, incarnazione del mondo invisibile che osserva e commenta. Nei momenti più solenni, il suono è risultato pieno e controllato, compatto ma mai rigido. Nei passaggi infernali, le voci hanno assunto tinte oscure, di grido sotterraneo più che canto. I pianissimi collettivi, che non si sono mai dissolti nel vuoto ma hanno mantenuto una tensione interiore palpabile, cesellati con maestria da Jacopo Facchini hanno creato un effetto di sospensione temporale. Le voci maschili sono scese a profondità che sembrano non avere fondo, mentre i soprani, quando emergevano, fendevano l’aria.

E quando Cecilia Bartoli attraversava la platea, il coro sembrava seguirla con lo sguardo, come una coscienza collettiva che accompagna l’eroe nell’aldilà. Jacopo Facchini ha cesellato ogni attacco, ogni cesura, con equilibrio tra dramma e misura. Si aveva la sensazione che il coro respirasse insieme, come un solo organismo e nei momenti più lirici, nelle invocazioni corali, nelle sezioni più ariose, è emersa una sorprendente morbidezza. Il coro non è mai stato sfondo, ma testimone, ora eco tragica della voce di Orfeo, ora muro sonoro che separa e unisce il mondo dei vivi e dei morti.

ensemble Les Musiciens du Prince – Monaco crediti foto Lorenzo Gorini

A sostenere questa costruzione teatrale così stratificata c’era l’eccellente ensemble Les Musiciens du Prince – Monaco, sotto la direzione di Gianluca Capuano, che ha affrontato la partitura con rigore stilistico e tensione espressiva. L’organico barocco si articola in un impasto ricco ma mai ridondante: il suono è asciutto, scolpito, ma capace di slanci ardenti. Il suono, sempre misurato e presente, non è mai diventato puro accompagnamento. Gli archi hanno offerto un sostegno emotivo costante, con un fraseggio sempre mobile, vivo, vibrante. I fiati, con il loro timbro mai omogeneo, hanno aggiunto un colore antico all’esecuzione. Capuano ha condotto con grande attenzione al respiro teatrale senza indulgere in barocchismi gratuiti, ma sottolineando una vera narrazione musicale. Le transizioni tra i recitativi e le arie sono risultate sempre organiche. Nel celebre Che farò senza Euridice, l’orchestra si è ritirata come un respiro trattenuto: poche note, una vibrazione, una sospensione.

L’allestimento ha rifiutato ogni effetto decorativo. Non ci sono state proiezioni né macchine teatrali, ma luci che si accendevano improvvise sulla platea, i gesti delle cantanti, le mani giunte di Bartoli, le braccia spalancate di Petit, carichi di senso, come icone, con una teatralità incarnata, necessaria, mai didascalica.

Dopo l’ultima nota, è calato un breve silenzio sospeso, che conteneva ancora la voce di Orfeo, il grido trattenuto di Euridice, la grazia di Amore. Poi è esploso un applauso grato, quasi liberatorio, a conferma del Monteverdi Festival come luogo dove l’antico si fa contemporaneo, e con Cecilia Bartoli, l’antico canta con una voce che non ha età.

Visto l’11 giugno 2025, Cremona, Teatro Ponchielli, Monteverdi Festival

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