Davide Enia dice di «non avere memoria alcuna del 23 maggio 1992», non ricorda con chi fosse, non sa che cosa stesse facendo quando arrivò la notizia della strage di Capaci. E parla di una «rimozione forzata, amplificata dal fatto che chiunque attorno a me serba memoria di quella giornata». In Autoritratto, in tournée nei teatri italiani, la protagonista è proprio la memoria, individuale e collettiva. Sono però i ricordi personali, anche minimi e intimi, a costruire il filo conduttore di un racconto che assume i toni e la profondità del teatro civile.
Mentre parla di sé, Davide Enia offre una lente con cui guardare alla storia e ai suoi grandi problemi. Lo spettatore adotta la visione del narratore su eventi e situazioni che conosce, anche solo attraverso il filtro dei media, e partecipa emotivamente. La platea ha una memoria televisiva delle stragi di mafia del ’92, di Pino Puglisi, della tragedia del piccolo Di Matteo, della ferocia di Totò Riina. L’esperienza personale di Enia, che ha vissuto la Palermo degli anni Novanta e che ha sentito il boato delle esplosioni di via d’Amelio, assume il valore di una testimonianza, capace di restituire individualità e umanità alla storia. La tragedia collettiva diventa personale, alla dimensione pubblica dei titoli dei giornali si somma quella privata di Davide che lo spettatore non può non sentire sulla propria pelle, proprio in virtù di quella memoria condivisa, anche solo in forma mediatica.

Una costante del teatro di Davide Enia è la rappresentazione del silenzio che caratterizza alcuni personaggi, ma che segna anche la soglia di tollerabilità, il limite oltre il quale non si può andare con la parola e che lascia il posto all’indicibile. Era il silenzio di un padre che comunica più con i gesti e con gli sguardi, ma anche il silenzio del mare e della strage di Lampedusa, ne l’Abisso, e quello scenico, che si inserisce tra il grido di dolore e le parole del racconto. Il suo silenzio teatrale è pieno di significato, perché allude ai non detti e alle rimozioni del presente, così come alla complessità delle relazioni interpersonali e degli affetti. Eppure, l’uso del silenzio ha una precisa valenza drammatica in un teatro costruito sulla parola (in lingua e in siciliano), perché entra in forte contrapposizione con il racconto, divenendo piuttosto una pausa, un momento di sospensione, carico di significato, come in uno spartito musicale.

In Autoritratto si allude però alla «dottrina del silenzio» a cui appartiene anche il Davide ragazzino, che nella Palermo degli anni Ottanta tornando a casa da scuola vede il suo «primo morto ammazzato» e che fonda la sua amicizia con Peppe Malato su un’alleanza silenziosa stretta tra i banchi delle elementari. Il silenzio dell’ultimo lavoro del drammaturgo siciliano è però inevitabilmente anche quello dell’omertà delle stragi di mafia degli anni Novanta o della ferocia dei corleonesi.
Nella drammaturgia di Davide Enia le parole hanno un ruolo centrale – «bisogna nominare le cose», non fa che ripetere – superando la dimensione del racconto per rispondere a un’esigenza di precisione e di definizione della realtà. Sono parole strettamente legate alle cose e alle situazioni, capaci di restituire visioni dettagliate, ma senza essere descrittive o retoriche. Il suo teatro sfiora l’affabulazione, non abbandonandosi però al gusto narrativo delle storie. Il racconto è una funzione subordinata all’evidenza del fatto teatrale, che si manifesta con tutta la sua forza e la sua potenza emotiva davanti agli occhi degli spettatori, che assistono al ripetersi degli eventi sulla scena.

Strumento indispensabile di questo gioco teatrale è il corpo dell’attore, che amplifica ogni parola, sottolinea con il gesto ogni concetto, scandisce il ritmo della narrazione, offre visività al racconto. Con il suo corpo, e la sua gestualità capace di movimenti minimi ma profondi, il protagonista inserisce la parola dentro lo spazio, conferendole uno spessore temporale.
E poi c’è la musica di Giulio Barocchieri, costante imprescindibile di questo teatro, ma qui forse ancora più incisiva nel dialogo con il canto di Davide Enia, che è soprattutto voce, e poi grido, lamento, cunto, rito. Le parole, definite con precisione millimetrica anche nel testo appena pubblicato “Autoritratto. Istruzioni per sopravvivere a Palermo” (Sellerio editore), si riempiono di consistenza materica su una scena che si affida ad una gestualità capace di divenire danza, alla sonorità musicale e stridente, alla voce che attinge alla coralità popolare, per «scendere in piazza con il proprio corpo».
Visto al Teatro India di Roma il 28 maggio 2025