RUMOR(S)CENA – CASTROVILLARI – (Cosenza) Primavera dei Teatri 2025. Cominciamo da un dato oggettivo: il Festival festeggia la sua 25° edizione. “Un piccolo miracolo”, lo definiscono gli ideatori e direttori Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano. Non è un’iperbole, se consideriamo il contesto in cui è nato e si è radicato, quello di un piccolo centro nel cuore della Calabria, Castrovillari in provincia di Cosenza, dove il teatro e le attività culturali in generale si trovano spesso in condizioni di marginalità e faticano ad affermarsi.
Dal 26 maggio al 1° giugno sono andati in scena oltre 35 eventi tra spettacoli di teatro, danza e musica, performance, tra cui 9 prime nazionali, 1 anteprima, 4 residenze artistiche, mostre, incontri e workshop, tutto all’insegna della sperimentazione e della ricerca di punti di vista non scontati, che traggono linfa dalla contemporaneità, senza appiattirsi sull’attualità, con uno sguardo attento ai giovani artisti, attori, drammaturghi, performer.
Tra i libri presentati, ho piacere di citare Autoritratto sentimentale per inviluppo (Gaspari Editore) di Claudio Facchinelli, critico teatrale recentemente scomparso. Un testo che raccoglie 15 racconti sentimentali, autobiografici, esperienze vissute nel corso di una vita, dall’adolescenza all’età matura, e raccontate in prima persona. Una sorta di educazione sentimentale erotica e amorosa, offerta al lettore col garbo, l’eleganza, il rispetto e la cultura che caratterizzavano un uomo “d’altri tempi”, sinceramente compianto da quanti, come la sottoscritta, ha avuto il privilegio di conoscerlo.
Chi scrive vi parla della propria esperienza negli ultimi tre giorni del Festival, dal 30 maggio al l’1 giugno. Ecco qualche nota su spettacoli di segno diverso, ma legati tra loro dal filo rosso della solitudine e dell’emarginazione.

C’è un dolore che accomuna Giuliana (Federica Carruba Toscano) e Mattia (Lorenzo Izzo), lontani tra loro per età, cultura e condizione sociale: entrambi piangono la morte di un fratello assassinato e reagiscono l’una con l’impegno e l’attività di sensibilizzazione nelle scuole, l’altro con rabbia adolescenziale distruttiva. Incontro, progetto e regia di Eduardo Di Pietro, firmato dal Collettivo lunAzione di Napoli, è lo spaccato di una società incapace di curare le proprie ferite. Lo slang delle periferie napoletane parlato da Mattia, se pure ostico alla comprensione verbatim, comunica disagio e disperazione e significativamente finisce anche in bocca a Giuliana, travolta dalla stessa rabbia impotente del ragazzo. Spettacolo intenso e autentico.

È il racconto di un’infanzia desolata quello che Federica Rosellini, regista, interprete e sound design, fa in Ivan e i cani. Del testo, scritto dalla drammaturga inglese Hattie Naylor e portato sulla scena nella traduzione di Monica Capuani, è protagonista un bambino di quattro anni nella Russia degli anni Novanta. Diventato adulto, ripercorre nel ricordo la sua fuga da una casa, la sua, abitata da povertà, alcolismo, crudeltà. Fuori, il mondo è ancora più feroce e la sola accoglienza gli viene data da un branco di cani con cui condivide il cibo e il calore della tana. Federica Rosellini, sul palco, incarna quella solitudine, la rivive e ce la fa rivivere, accompagnando le sue parole con la strumentazione elettronica con cui registra, riproduce, mixa voci, la sua e quella in russo della madre, Laura Pasut Rosellini. C’è a tratti una dissonanza tra il racconto e i suoni, e talvolta una ripetitività ridondante, ma la narrazione rimane vivida e capace di penetrare l’anima.
Il dialetto si fa melodia, colonna sonora di vite miserande, vissute senza speranza di riscatto nella drammaturgia di La Verma, firmata da Rino Marino, che cura anche scene e costumi. Una performance che ti fa dimenticare di essere in un teatro per immergerti in un’atmosfera liturgica dove alle parole fanno da sponda e da complemento le musiche dei Fratelli Mancuso. Povere cose distribuite nello spazio scenico disegnano un ambiente disagiato, all’interno del quale si muovono i protagonisti. Una madre e due figli (Miriam Palma, Fabio Lo Meo, Liborio Maggio, straordinari nella loro restituzione dei personaggi) vivono chiusi in un mondo sotterraneo, mentre la vita si svolge sopra le loro teste, come la processione del venerdì santo che attraversa il paese accompagnata dal suono della banda.

La madre recita litanie e insieme maledizioni, cullando un neonato fatto di stracci. Dei due figli, uno è mentalmente ritardato; l’altro è un povero essere sofferente che consuma gli ultimi suoi giorni dentro una cassa di legno. Immagini cristologiche si compongono sulla scena: la Pietà Rondanini di Michelangelo permea di sé la madre che spulcia la testa del figlio disteso sulle sue ginocchia. Una sacra sindone appare il lenzuolo che avvolge il fisico emaciato del figlio morente.

C’è l’eco della poetica di Franco Scaldati, e insieme l’attesa vana di Aspettando Godot di Samuel Beckett, e la finestrella dalla quale si scruta l’esterno di Finale di partita: non calchi, ma suggestioni che avvolgono e catturano lo spettatore al di là della comprensione del dialetto. Da non perdere. Un mondo chiuso e intriso di solitudine è anche quello raccontato con sensibilità, sfumata ironia, sorriso partecipe e un velo di garbata comicità da Danio Manfredini (che cura regia, scene e costumi) in Cari spettatori. Due pazienti psichiatrici, dimessi dalla struttura in cui erano ricoverati, vivono in un appartamento messo a disposizione dalla Caritas. L’uno, Gino (Giuseppe Semeraro), aspirante regista, coltiva il sogno di diventare famoso, l’altro Arturo (Vincenzo Del Prete), è insofferente a quella coabitazione dalla quale vorrebbe emanciparsi.


Le dinamiche vissute durante il ricovero riecheggiano nei video che scorrono sul monitor della TV e acuiscono il senso di ineluttabilità che grava sui protagonisti. Sono due caratteri divergenti ai quali gli attori donano credibilità, dando voce a sogni, speranze, aspettative di due esseri umani ai quali guardare con rispetto.


Una prova d’attore ipnotica e conturbante l’ha offerta Marco Sgrosso, protagonista di Emma B. Vedova Giocasta, il monologo scritto da Alberto Savinio nel 1949. Il personaggio, interpretato magistralmente in passato da attrici del calibro di Paola Borboni e di Valeria Moriconi, assume un’ulteriore carica di ambiguità nell’interpretazione maschile. La figura del defunto marito e quella del figlio prossimo al ritorno dopo una lontananza durata 15 anni, giovane uomo verso il quale la madre prova un’attrazione incestuosa, rivelano la loro sotterranea presenza nel corpo dell’attore. Sulle scene e i costumi ideati da Marco Sgrosso si innestano i chiaroscuri del disegno luci di Loredana Oddone e i suoni avvolgenti curati da Roberto Passuti. L’uso della maschera, modellata da Stefano Perocco di Meduna, che Emma indossa per comparire davanti al figlio, pone un sigillo inquietante al finale.

Ancora solitudine, vissuta con dolore all’interno della coppia, è quella raccontata da Cecilia Foti in Domineddio, esito della residenza dell’attrice in questa edizione di Primavera dei Teatri. Un monologo che trae le sue radici nei laboratori dedicati a donne vittime di violenza e realizzati con Saverio La Ruina. È la storia di un riscatto, dell’emancipazione di una donna alla quale l’attrice presta anche la sua voce appassionata di cantante con sensibile partecipazione.

In ultimo, citiamo il film-documentario di Saverio La Ruina, Italianesi, del 2024, dove emarginazione e solitudine sono quelle dei circa 25.000 italiani tra civili e militari, che alla fine della Seconda Guerra mondiale rimasero bloccati in Albania. Centinaia di loro non potettero fare ritorno in Italia fino alla caduta del regime comunista nel 1991. Una testimonianza necessaria che porta alla luce una storia colpevolmente dimenticata.
Spettacoli visti al Festival Primavera dei Teatri di Castrovillari (Cosenza) dal 30 maggio all’ 1 giugno