Teatro, Teatrorecensione — 08/03/2012 at 16:13

I cavalieri di Perrotta al grido di “Più stupidi di così si muore”

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Posti come reagenti la demenzialità più bassa e la lucidità più acuta si ottiene in risultato un concentrato teatralmente irresistibile dell’Italia di oggi. A fare da chimico Mario Perrotta che sul palco del Teatro Villa dei Leoni di Mira, (Venezia) propone a un pubblico entusiasta, già memore del capitolo primo della sua trilogia sull’individuo sociale, la seconda tappa del lavoro: I cavalieri, Aristofane-Cabaret. Un Aristofane che, come spiega lo stesso autore, è “rivisto e scorretto”, che viene saccheggiato più o meno evidentemente in numerosi passaggi e che non si esita a tradire laddove le circostanze lo richiedano. Rivelando una straordinaria aderenza al motto petroliniano del “Più stupidi di così si muore”, il regista leccese costruisce uno spettacolo che attinge al serbatoio sociale del demenziale più inquietante e più divertente insieme. Al di là dei contenuti già visti e sentiti altrove, la vera invenzione di questo spettacolo risiede nell’originale costruzione registica che guarda alla tecnica patchwork e che assegna un inedito ruolo di sostegno a un elemento spettacolare inaspettato: il ritmo.

Lungi dall’essere puro effetto, conseguenza di una messa in scena ben rodata, infatti, il ritmo di questo spettacolo costituisce il punto di partenza strutturale dell’intera scrittura scenica. Il perfetto incastro fra tracce sonore, inserti vocali, musiche e partiture fisiche disegna un’intelaiatura di sostegno su cui si poggia solo in seconda istanza la pur evidente bravura degli attori. Vero protagonista della pièce, allora, è Mario Arcari, uomo-orchestra che da perfetto burattinaio di idiote marionette muove a vista i fili dell’azione operando una scansione impeccabile di ogni singolo snodo drammaturgico. La scena, cantiere aperto, ospita un’impalcatura tra le cui instabili assi di ferro guizzano sicure sei anonime figure vestite di nero che ammiccano al pubblico oscillando allusivamente il bacino a tempo di musica.

Suddiviso in quattro segmenti, introdotti e preventivamente sottotitolati da un brechtiano presentatore posto di lato interpretato da Mario Perrotta, lo spettacolo disvela progressivamente le tappe di un disfacimento sociale ancora in atto. Il primo atto presenta al pubblico una riunione del “condominio Italia”, durante la quale inquilini provenienti da ogni angolo dello stivale si lanciano in una gara dell’idiozia e del luogo comune. Un coro polifonico di dialetti peninsulari accompagna arringhe razziste, fobie culturali, lamentele per la crisi che emergono in forma di storia personale dall’amalgama di suoni, voci, stralci audio di trasmissioni tv, musiche e canzoni eseguite dal vivo messo a punto dalla regia in forma collagistica. Dal teatrino degli orrori che va da Pietro Maso al caso Marrazzo passando per veline vallette e Maria de Filippi, spunta fuori un nuovo personaggio: Il salsicciaio. L’uomo nuovo che già in Aristofane doveva, per furfanteria e disonestà, superare quello vecchio e imporsi come sostituto, parla il romagnolo di Lorenzo Ansaloni.

Capitolo secondo, dunque: La resistibile ascesa di un carnezzaro. Accompagnato da un sassofono che chiude una geniale composizione con il motivetto dei tre porcellini, l’uomo nuovo si presenta al pubblico nel celebre talk “ Porca a Porca”. In passerella per la sfilata dell’idiozia accanto al salsicciaio e all’uomo vecchio suo rivale (Giovanni Dispenza), Perrotta, nei panni di vanesio presentatore e le sorelle Badoglio (Paola Roscioli, Maria Grazia Solano, Donatella Allegro), un trio di donne modello oca accessoriate di papillon e voce stridula. La pseudo-puntata del talk si risolve in una maratona dell’urlo e dell’arte del parlare senza dir nulla.

Dopo l’uomo vecchio e l’uomo nuovo è il turno delle donne. Al loro tentativo di prendere in mano le redini della società è dedicato il terzo quadro. Con una perla attorica di intenso lirismo incastrata in un registro di tutt’altro ordine, la Roscioli e la Solano si producono in un dialogo in romanesco sulla difficile condizione della donna vittima di sevizie e violenze. Subito dopo in verdi casacche militari, le moderne Lisistrata, Mirrina e Cleonice pronunciano il celeberrimo giuramento sullo sciopero del sesso, salvo poi ricusarlo qualche istante dopo sedotte dalle note di “ ‘A cammesella”.

Fallito ogni tentativo di un possibile cambio di rotta, al regista non resta che mettere in scena quel che resta dell’Italia. Il capitolo quarto sancisce il trionfo del qualunquismo. Tornati al punto di partenza, i sei personaggi gareggiano, forse con un piglio meno sicuro, nel parlare del vuoto e nel lamentarsi dell’astratto. Lo spettacolo si chiude con una splendida pantomima, in cui anonime figure mascherate reiterano all’infinito i gesti del vivere nella società dei magnaccioni: mangiare, bere, fottere, rubare, defecare.

La pièce, in piena tradizione del genere cui appartiene, è legata a doppio filo al tempo che l’ha partorita. Seppure evidente è lo scarto tra alcuni riferimenti alla politica di qualche mese fa e la situazione attuale che si è evoluta in una direzione differente, essa non perde minimamente la sua efficacia caustica. A riprova del fatto che, evidentemente, l’obiettivo polemico dello spettacolo non è la corruzione del potere ma il viscido collaborazionismo di un popolo accondiscendente. Con I Cavalieri Perrotta provoca lo spettatore/cittadino scaraventandogli addosso, in forma di risata, la fotografia di un’Italia in cui governanti furfanti e popolo ipocrita si meritano a vicenda. È l’atto d’accusa a un individuo automa che pone le basi per il terzo capitolo della trilogia, Atto Finale- Flaubert, in cui, rovesciata la triste condizione di partenza, l’individuo cercherà un riscatto profondo alla propria passività. Con quali esiti spetta al pubblico verificarlo.

 

I Cavalieri Aristofane-Cabaret

di e con Mario Perrotta

Visto al Teatro Villa dei Leoni Mira (Venezia) il 25 febbraio 2012

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