RUMOR(S)CENA – REGGIO EMILIA – Quando la Dresden Frankfurt Dance Company entra in scena al Teatro Municipale Valli di Reggio Emilia, ciò che si muove non è solo il corpo dei danzatori, ma l’idea stessa di movimento. La compagnia è una creatura di metamorfosi: un corpo collettivo che nasce dalla grammatica di Forsythe e respira nel presente di Mandafounis, un organismo a più voci, una comunità di corpi pensanti che abita il gesto come si abita una lingua in continua evoluzione. Ogni danzatore sembra portare nel corpo la memoria di Forsythe, la sua geometria frammentata, la sua logica del disordine, la vertigine della struttura, ma allo stesso tempo l’apre, la trasforma, la rende permeabile. Sotto la direzione di Ioannis Mandafounis il gruppo non custodisce un’eredità, la metabolizza.

La tradizione rigorosa si scioglie come materia viva, e la danza diventa un campo di indagine dove improvvisazione, ascolto e consapevolezza si fondono. Ogni danzatore è un punto di pensiero, un nodo sensibile di una rete che si reinventa a ogni passo. Il gesto, in questa compagnia, non serve a rappresentare, serve a comprendere. Con Undertainment, William Forsythe costruisce una partitura di instabilità controllata. La scena è nuda, esposta, una lastra neutra di spazio che diventa campo di scrittura. Non c’è racconto, non c’è coreografia nel senso classico: c’è un sistema che si auto-genera, una struttura che emerge dalle decisioni istantanee dei corpi. Ogni movimento sembra la conseguenza di un pensiero non ancora formulato, che si svolge nello spazio prima di diventare parola. I danzatori sembrano obbedire a regole che inventano mentre le eseguono, si muovono in schemi invisibili, griglie, spirali, linee che si formano e si dissolvono, e creano una percezione quasi algoritmica della danza.

La struttura della coreografia nasce da una logica che si scrive in tempo reale. Ogni variazione sembra obbedire ad un codice che nessuno esplicita ma che tutti comprendono. La tecnica non è virtuosismo ma lucidità volta a mantenere il disequilibrio, i punti d’appoggio diventano ipotesi, il corpo un sistema di forze che si corregge in tempo reale. La precisione è totale, ma non rigida: una disciplina elastica che permette al caos di avere forma. Forsythe usa la ripetizione come strumento di disorientamento: più una figura si ripete, più diventa instabile, come se la memoria stessa del gesto si consumasse nel suo farsi. Non c’è musica a sostenere: solo respiro, attriti, minimi suoni del corpo che taglia l’aria.
L’assenza sonora si fa presenza assoluta, uno spazio acustico dove ogni passo ha peso, ogni sospensione dà il ritmo. È come se la coreografia si generasse dal respiro stesso dei corpi: ogni inspirazione un’ipotesi, ogni espirazione un nuovo inizio. Lo spettatore è invitato non a comprendere, ma a percepire. È una danza che crea un labirinto di direzioni, dove l’intelligenza del movimento si manifesta nella capacità di perdersi e ritrovare coerenza in un’altra forma. Le luci di Tanja Rühl, tagli radenti e temporanei, non illuminano ma rivelano, aprono spiragli, sezionano lo spazio, rendono visibile la perfezione del gesto. I costumi di Dorothee Merg, asciutti e neutri, amplificano la trasparenza dell’insieme senza ornamento.
Dopo l’ordine fluttuante di Undertainment, Lisa di Ioannis Mandafounis spalanca la porta dell’imprevedibilità assoluta, benché basata su una traccia data dal coreografo. Anche Lisa comincia in uno spazio spoglio, ma questa volta la scena ospita un pianoforte e un piano inclinato che obbliga i corpi a negoziare continuamente l’equilibrio. È una topografia del rischio, un terreno mobile dove il passo non è mai certo. La composizione si apre e si dissolve: da soli a duo, da gruppo ad assenza, da voce a silenzio. Ogni scena sembra poter cambiare direzione da un momento all’altro. È una drammaturgia dell’incertezza, dove il rischio diventa sostanza estetica. La coreografia non è scritta, è continuamente improvvisata. Ogni ingresso, ogni relazione, ogni mutazione scenica nasce da una scelta condivisa tra i danzatori. Il linguaggio di Mandafounis è radicalmente presente, affida la costruzione dell’istante ai danzatori, che si ascoltano, si osservano, si rispondono come in un linguaggio senza parole.
La danza si scrive nel tempo stesso del suo accadere. Sul piano inclinato, ogni movimento, cadere, trattenersi, restare in bilico, è una scelta etica. I corpi diventano strumenti di percezione collettiva, si adattano alle microvariazioni della superficie, rispondono all’altro come a una domanda. È un esercizio di fiducia reciproca e di intelligenza condivisa. L’improvvisazione non è gesto libero, ma disciplina percettiva: il danzatore deve sentire il tempo e la tensione del gruppo, deve intuire quando l’energia chiede di aprirsi o di tacere. Lisa è un esperimento sulla coscienza coreografica. Le musiche eseguite dal vivo da Gabriele Carcano, frammenti di Fauré, silenzi, sospensioni, respirano dentro la scena come presenze evanescenti. Il pianoforte non accompagna: interviene, interrompe, apre fenditure emotive. Il suono non è scenografia, è tensione. Tra le trame sonore affiorano parole di Osip Mandel’štam, frammenti di versi in russo, inglese, tedesco sussurrati o accennati.
Questi versi attraversano la scena come echi di una memoria lontana. Non servono a spiegare, ma a contaminare, non accompagnano non illustrano la danza. I costumi, ancora di Dorothee Merg, vagamente evocativi degli anni Trenta, evocano un tempo sospeso: giacche, camicie, gonne leggere, tonalità neutre che portano sulla scena il passato non come citazione, ma come stratificazione. Le luci, curate dallo stesso Mandafounis, scolpiscono il piano inclinato in zone di chiaroscuro, come se la gravità stessa producesse ombra e la scena diventa un esperimento, un paesaggio che si ricrea a ogni gesto in cui i corpi incidono nello spazio la propria vulnerabilità.
Visti insieme, Undertainment e Lisa sono due facce dello stesso pensiero. Tra Forsythe e Mandafounis si apre una continuità sorprendente. Il primo costruisce un sistema dato dal corpo come architettura di logiche invisibili, il secondo lo disgrega usando il corpo come campo di decisioni, come linguaggio aperto. Il primo ordina il caos, il secondo lo abita. Forsythe costruisce il pensiero; Mandafounis lo espone al mondo. La compagnia diventa il ponte tra le due visioni. Si percepisce una consapevolezza rara: la precisione forsythiana non viene rinnegata, ma interiorizzata. In Lisa quella stessa precisione sopravvive come etica, non come forma, la danza si libera dal controllo, ma non dalla lucidità. È come se la compagnia stessa fosse il vero soggetto coreografico, una mente collettiva che si adatta a due diversi modi di concepire il tempo.
Visto il 4/10/2025 al Teatro Municipale Valli, Reggio Emilia




