RUMOR(S)CENA – ROMA – Insetti frenetici tra pareti di ghiaccio, in controluce all’atonìa di due spettri, si agitano disperati nel gelo mortuario della morte dei sentimenti e delle contraddizioni. Scivolano e si agitano rabbiosi sul glaciale silenzio celato nella loro ipocrisia. Il bianco glaciale della morte violenta, della violenza della realtà che su tutti incombe. Il bianco come severa assenza di colore e appiglio. Questa a nostro parere è la cifra di questa versione de La gatta sul tetto che scotta, di Leonardo Lidi, che (bypassando le censure che nel famoso film con Paul Newman e Liz Taylor (1958) edulcoravano il testo di Tennessee Williams, poi riscritto più hard dallo stesso autore) ne riesuma le vere intenzioni, la violenza anche volgare degli scontri verbali, e le allusioni alla omosessualità. Non il cimitero, come dicono alcuni critici è la metafora che informa la scenografia, ma il bianco glaciale, simile in ciò al bianco delle pareti mobili del Riccardo III di Luca Ariano (Roma, 2023), anch’esse gabbie mobili di morte e violenza, di menzogna.

Bianco qui violato ora da urla ora dalla falsa frenesia festiva, in controluce rivelatorio, come il circo surreale in rosa e azzurro, confetti e clownerie con cui Lidi, qualche anno fa, imbastiva la saponificazione dei figli nello Zoo di vetro, sempre di Tenessee Williams, il rosa di una quinta che poi crollava a scena aperta, rompendo la parete di cristallo. Là una madre risucchiante, invadente, soffocante, ed un padre alcolista ed assente. Qui un padre volgare violento, desertificante, ed una madre non proprio assente fisicamente – anzi istericamente invadente – ma abbondantemente inconsistente. Non tutto però è come sembra, e rimane nel testo una catarsi, del resto già presente e ben recitata nel film del ’58, dove Burl Ives dava splendidamente corpo al gigantismo contorto del padre, duellando con un superbo Paul Newman (il figlio).

La catarsi è la verità. Si potrebbe dire, parafrasando Tenessee Williams, che lo Zoo di vetro va in frantumi quando padre e figlio accettano di ferirsi al gioco della verità. In un duello di odio-amore. La trama è nota: un padre padrone ricco e volgare (Big Daddy) non sa che sta per morire di cancro. Ma pian piano tutti, e pure lui, lo apprenderanno. Big Daddy non sopporta nè la moglie né il primogenito, goffo ma prolifico. E non sopporta i suoi bambini pestiferi né la sua intrigante moglie. Ama piuttosto Bric, il secondogenito, nella sua frantumata sincerità scontrosa, e ne vorrebbe fare l’erede delle sue fortune. Ma Maggie, la compagna di Bric, sembra sterile, e il sesso con Bric, ora alcolista e disoccupato, desertificato. Bric del resto forse amava Skipper, suo compagno di sport, poi morto suicida, dopo essere stato sedotto da Maggie, che tentava per suo tramite di avvicinarsi al marito. Skipper si è suicidato, ma nel momento della crisi aveva telefonato a Bric, che non aveva saputo né parlargli né fermarlo. Perché se amore era il suo, era un amore interiormente impedito, tanto che quando il padre gliene allude reagisce con furia. Non omosessualità la sua! Solo casta e grande amicizia. Un amore platonico.
Il padre, che vorrebbe salvare il figlio, e stanarne il dolore (magari solo per restaurare egoisticamente l’immagine dello specchio virile) intuisce che questa è la ragione del bere e della deriva del figlio. Non lo schifo per l’ipocrisia famigliare, ma lo schifo di se stesso e della propria vigliaccheria. Il senso di colpa verso Skipper. Dunque lo schifo è per la propria fuga dalla verità. Tutti mentono. Ma lui non è l’angelo sterminatore, il puro. È lo sterminatore di se stesso. E così quel padre che lui accusa di non aver mai parlato con lui, per amore, crudelmente, incide la ferita. Porta la verità.
Ed avrà in restituzione, con la furia dell’odio-amore della belva ferita, dal figlio, la dura verità del suo cancro. Lui, volgare con la moglie che non ha mai amato, anche umiliandola, in pubblico, davanti ai figli, non potrà rifarsi con le puttane, come vitalisticamente sogna ed esibisce in modo inopportuno al figlio.

Dovrà affrontare il deserto della morte imminente. Esce bruscamente di scena, ma da quell’uomo forte che comunque è, nel suo distorto gigantismo, rientrerà ad interrompere con ironia demistificante il teatrino famigliare del dolore e del complotto, dichiarando che sente odore di ipocrisia. Trasforma così sia il falso dolore del primogenito, sia l’isteria della moglie, sia i complotti per impadronirsi della proprietà in una chiara esplosione di rabbia di tutti contro di lui. La nuora viene però repressa dal marito, svergognato, e la madre a terra si accascia su Bric.
E Maggie? Se il tono di tutti tende all’urlato, lei – incarnata con furia da una impeccabile ed intensa Valentina Picello – punta alla frenesia. Che aggredisca Bric perché reagisca, la ami, e non la lasci alla deriva di un ritorno alla povertà, che inveisca rabbiosa contro la cognata, definendo con disgusto comico i suoi marmocchi mostri senza collo, o che tenti di convincere il marito del proprio amore, sempre la sua parlata è ipercinetica avvolgente, in disperata frenesia. Tutti hanno comunque un dolore. La madre, Maggie, il primogenito il fantasma del rifiuto.
Big Daddy il sospetto del deserto futuro ed il deserto già vissuto. Solo la cognata ha il duro ruolo della ridicola e spregevole, della madre inutile e marginale nella dinamica del clan patriarcale. Anche se forse il suo dolore è la frustrazione di stare con un marito inetto al gioco del potere, vivendo nell’ombra della svalutazione che lui da sempre subisce. E certo, tutti, a modo loro, contraddittorio e distorto, credono di amare. Comunque sia, come dicevo, la catarsi esplode col gioco della verità padre-figlio, ed il simbolo ne è Skipper. Skipper è la verità come ferita, come colpa dell’amore.

L’ombra muta di Skipper (sempre in scena) splendidamente personificato, con languore e pervasività da Riccardo Micheletti, l’ombra di Skipper è dunque il perno su cui si regge tutta la messinscena, e l’altra grande idea registica accanto al bianco. Bric e Skipper sono spesso vicini e silenti in scena, si parlano a sguardi e gesti, e appaiono e scompaiono da e dietro a uno specchio, che Skipper sposta qua e là, come muta domanda d’identità, talora rivolgendolo al pubblico, perché senta che ciò che s’inscena è il suo stesso volto. Come direbbe Baudelaire, Hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère!.
Così, mentre per interazioni ad ondate ciascuno porta le proprie pulsioni e le proprie contraddizioni nello scontro-incontro manipolatorio con gli altri, il loro duo fornisce il basso continuo di una sottile derealizzazione, che verso la fine si manifesta anche nel rito delle bottiglie, quando Skipper ne porta senza requie a Bric, che sempre più beve nella disperazione della verità, e le abbandona per terra come un vetrificato labirinto di cristallo, nel quale si aggira con sapienza, pur barcollando.

Gli altri urlano, si scagliano, piatiscono, inscenano una grottesca festa di compleanno al patriarca. Ma, come dicevo all’inizio, sono solo insetti frenetici tra pareti di ghiaccio, in controluce all’atonìa di due spettri, che si agitano disperati nel gelo mortuario della morte dei sentimenti e delle contraddizioni. Scivolano sul silenzio spettrale dei due portatori del segreto.
Sono guardati come da un aldilà. Un po’ come Kantor, sempre in scena, imperturbabile, nella Classe morta, era lo sguardo che oggettificava la tragedia della memoria, nella sua recursività. Lui era il regista proprio come ruolo, ma si potrebbe dire che Bric e Skipper, con la loro coppia vita-morte, sono i registi e i testimoni muti di questo urlato ed espressionistico teatro verità. Ed espressionistico è il semifinale. Non più protagonisti a turno scagliati nel vuoto, dove il loro agitarsi stride.
Quando la verità va detta anche alla madre (che forse sospetta? e se lo nega?) Skipper, che è la verità, e dunque anche la levatrice del dolore, e dunque anche il medico, subisce una metamorfosi. Fino ad ora lui e Bric erano sempre stati in bianco, e seminudi (in boxer), come oggetti deietti dalle convenzioni sociali. Ora Skipper sta nell’angolo, di spalle, di fronte allo specchio, come un bimbo in punizione. Ma è vestito, in nero.
Poi si volta, ed ora col volto nero a calzamaglia incarna il medico a cui si chiede di dire chirurgicamente la verità alla madre. Le luci si abbassano, e mentre lui avanza muto e minaccioso nel mare di palloncini a terra, residuo della festa detronizzata, esplode tempesta. Rumore di vento e musica ossessiva, e il bianco ci abbacina tormentato da frenetiche luci stroboscopiche, abbagliando ed accecando. E lui rotea intorno a lei, persecutorio, ballando, come in un sabba di vendetta. Poi tutto si ferma, a piena luce, mentre lei gli si aggrappa, e urla, cancroooo! La conclusione, per veloci quadri, è in levare, alleggerendo in amore ed ironia. La madre a terra, accoccolata su Bric, l’unico che non complotta, parla d’amore e nipotini. Poi entra il padre, irridendo al tutto.
Poi, mentre Skipper posa dietro di loro, in orizzontale lo specchio, Maggie e Bric soli. Lei dichiara di essere quella forte, e di amarlo, e lui ironizza e beve, ma forse non rifiutando il famoso compromesso: fingere col padre che lei sia incinta. Perché lei sa che cammina su un tetto che scotta, e non vuole cadere. E ora però forse lui, dopo il massacro della verità, è anche pronto all’amore. Tenessee Williams è crudele ma anche abilmente ambiguo, lasciando in sospeso la verità profonda. E mentre il pubblico in inconscio vagamente ci pensa, ancora stordito dalla sinfonia di urla e fantasmi, la scena si chiude e prendono corpo gli applausi, alla regia, all’autore, agli attori, tutti bravi nell’eseguire ciascuno la partitura in diverse coloriture loro assegnata.
La gatta sul tetto che scotta, di Tennessee Williams – traduzione Monica Capuani
regia Leonardo Lidi – con Valentina Picello (Margaret, Maggie), Fausto Cabra (Brick), Orietta Notari (madre di Brick e Gooper), Nicola Pannelli (padre di Brick e Gooper – Big Daddy), Giuliana Vigogna (Mae – moglie di Gooper), Giordano Agrusta (Gooper – fratello di Brick) , Riccardo Micheletti (Skipper), Greta Petronillo (Bambina), Nicolò Tomassini (Reverendo) scene e luci Nicolas Bovey – costumi Aurora Damanti – suono Claudio Tortorici, assistente regia Alba Maria Porto
Prodotto da Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale
Visto al Teatro Vascello di Roma il 20 maggio 2025