Teatro, Teatrorecensione — 28/01/2016 at 23:11

Un esuberante ed esilarante “Gaudeamus”

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MILANO – Di nuovo in scena al Piccolo Teatro Strehler di Milano per il fulmineo lasso di tempo dal 27 al 31 gennaio, “Gaudeamus” è lo spettacolo, che consacrò Lev Dodin e il Maly Teatr di San Pietroburgo agli onori della cronaca mondiale. Era il 1990. All’indomani della caduta del muro di Berlino e in piena perestrojka, rubava al racconto “Battaglione di costruzione” di Sergeij Kaledin lo spaccato di vita di un manipolo di soldati preposto alla costruzione delle latrine e poi lo trasfigurarva in una metafora dei rapporti di forza all’interno dell’esercito. Ma non solo.
Per cercare di dire qualcosa di universale bisogna parlare di qualcosa di concreto.”, confidava lo stesso Dodin in un’intervista (“Tredici domande a Lev Dodin”, “Ateatro”, 2001). Così non fa specie che per parlare della miseria degli esseri umani, della loro fragilità e, di conseguenza, dei loro rapporti spesso predatori ed opportunistici, prendesse le mosse da qualcosa di estremamente tangibile, basso, sporco e in qualche modo primordiale e ributtante come la costruzione e manutenzione delle latrine nei campi militari. Poi lo riversa in arte, lasciando alla filiazione il solo germe della suggestione e procedendo attraverso un lungo lavoro d’ improvvisazioni, prima, e poi al loro fissaggio e montaggio, fino a stillarne il risultato che vediamo in scena. O quasi. Il cast di attori non è più quello originario e molti dei ragazzi in scena, neo diplomati della scuola teatrale ancora da lui diretta, non erano neppure nati, in quel lontano 1990. Tant’è. Quel che resta intonso, però, è lo spirito di quell’operazione. Uno spettacolo dall’esuberanza fisica e dalla mimica dirompente, che solo un giovane cast può garantire per le intere oltre due ore della durata.

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Accanto al particolare con valenza universale, altro elemento della poetica di Dodin, qui, è sicuramente quello dell’ironia e della risata. “La fantasia distruggerà il potere ed una risata vi seppellirà!”, acclamavano gli slogan “sessantottini e anarcoidi della rivoluzione studentesca del “77, mentre già Rabelais scriveva: “Meglio è di riso che di pianto scrivere, Ché ridere soprattutto è cosa umana”. E questo getta una nuova luce. Se lo stesso regista russo, infatti, parla della vita paragonandola a un circo, quel che forse salva da queste maschere grottesche e mostruose è proprio la risata. Un gesto profondamente umano, ricordiamolo; un’abilità esclusivamente umana, che, mentre sbeffeggia, sublima e accoglie come naturale esito di un processo di rispecchiamento e riconoscimento. Così che alla fine è solo la compassione, il solo sguardo possibile difronte alla condivisa miseria umana. Ecco perché “Gaudeamus”.

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Incipit del “De brevitate vitæ“, poi assunto a inno internazionale della goliardia, il testo ricorda le scanzonate considerazioni dei clerici vagantes medievali, ovvero gli studenti universitari dell’epoca, inneggianti al carpe diem. Ed è questo lo spirito. Quasi che non ci sia nessuna bellezza e nessuna salvezza in questa bestia feroce che è l’essere umano; quasi che la sola salvezza possa essere, al più, la catartica risata di un’autoironica identificazione. Illuminante, in tal senso, è la scena esilarante e grottesca del plotone addestrato nei suoi rudimenti da un graduato talmente sprovvisto, che, manuale alla mano, non sa si se imponga l’imprimitur a farne dei soldati, delle ballerine o degli sconnessi bestioni. Nè manca la sferzata al nonnismo, alla vanità dei motivi per i soldati si ritrovano a fare quella vita, al degradato rapporto col genere femminile, alla tronfia vanagloria di ego inesistenti. Godibile, pur nella sua ferocia, la parodia dei rapporti Arabi/Israeliani e la lapidaria denuncia in quel ribellarsi: “Ma io sono un arabo!”, rivendicato dal militare appartenente alla metà chiamata a recitare quel ruolo ed erroneamente confuso dal superiore; sua agghiacciante la sbrigativa replica: “Arabo oggi, ebreo domani...”, a mettere levar di mezzo ogni dubbio a proposito delle motivazioni religiose e ideologiche di quel conflitto.

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Ironia sottile, sarcasmo feroce e comicità esilarante, per uno spettacolo – mai termine fu meglio declinato -, che alterna azione scenica, balletto, canto, parodia e farsa, giostrandosi fra le strettissime maglie dell’attenzione censoria di Stato e il desiderio di raggiungere un pubblico quanto più vasto possibile. Quel che ne vien fuori è una partitura volutamente sgangherata, scenicamente impattante, energetica e coinvolgente. Corsa e giocata sul piano inclinato dell’ideale campo innevato, in questo e da questo compaiono e scompaiono i soldatini/furetti, che invece che tane abitano latrine. Ma tutto è sublimato in un’atmosfera chiassosa e surreale, un po’ kitsch, un po’ naïve, che mentre stigmatizza nella maniera più feroce ciò di cui ci sta parlando, apparentemente ci intrattiene. Meglio: trattiene lo spettatore, cercando di guadagnarlo alla sua narrazione dello sporco, benché ai toni ributtanti del realismo, preferisca un’estetica da carillon certo ridicola e risibile, ma mai disturbante.

Visto al Piccolo Teatro Strehler di Milano il 28 gennaio 2016

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