Recensioni — 22/04/2016 at 21:21

Retrospettiva “F/e.s.t.i.a.” fra carcere, reinserimento e inclusività

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MILANO – Se il teatro è “visione, dal verbo greco θεαομαι (=theàomai) ossia “vedo“, e se il teatro implica una co-azione fra vedente e visto all’interno di uno spazio predefinito, allora è bello pensare che il teatro sia anche possibilità di cambiare lo sguardo e scambiarsi i punti di vista. Credo sia questo, il principio sotteso a tutto quel teatro sociale, che certo occupa una fetta non indifferente della produzione teatrale; “non indifferente” almeno quanto a “senso”, giocando con la sovrapposizione sonora fra “vista, udito, odorato, gusto e tatto” – i cinque “sensi”, appunto – e “significato”, quasi a intendere i sensi come irrinunciabili strumenti d’indagine e ricerca di senso.

E.S.T.I.A. teatro - struttura in legno costruita dai detenuti/falegnami
E.S.T.I.A. teatro – struttura in legno costruita dai detenuti/falegnami

Già perché il pre requisito di tutto ciò che si fa è che abbia un “senso”; alto o basso non importa, ma alla fine i conti devono tornare. E il “cui prodest?”, quando resti inevaso, è uno di quei tarli che non sapiamo bene fino a quali abissi possano trascinarci. Fors’è per questo che diventa tanto urgente l’azione teatrale specie in territori di confine: quasi un’azione magica, negli esiti, ma profondamente concreta in quella sua pratica che spesso resta rigore, sudore, relazione, responsabilità e disciplina; la necessità di una scappatoia liquida e trasversale, che, aprendosi orizzontalmente a travalicare le angustie della circostanza data, sappia però affondare in vertigini di senso.

Si spiegano così, certe operazioni portate avanti in contesti di disagio sociale, psichico o in situazioni di deprivazione come nelle strutture carcerarie. Penso al teatro di Gigi Gherzi, ad esempio, qui a Milano, che mette a reagire segmenti sociali marginali, o all’azione di Luigi Guaineri all’interno del MAPP (Museo d’Arte Paolo Pini, ex struttura psichiatrica che sostiene gli utenti dei suoi centri diurni) o, ancora, l’impegno di Donatella Massimilla, attraverso il CETEC (Centro Europeo Teatro e Carcere) a San Vittore o di Michelina Capato, Cooperativa E.s.t.i.a., nella II Casa di Reclusione di Milano-Bollate.

La parola d’ordine è inclusività; ed è in questo contesto che si colloca pure E.s.t.i.a.

Psycopathia Sinpathica
Psycopathia Sinpathica

Il nome allude al corrispettivo greco della romana dea del focolare Vesta e suggerisce quel cuore pulsante e generatore di relazione e di senso, che forse si smarrisce – o si è già smarrito -, quando si percorrono le strade, che conducono fino alla cella di una prigione. “Le persone accompagnate in questi anni – spiega la Capato – appartengono in misura maggiore a categorie in difficoltà, dove “il reato” è spesso sintomo della povertà reale, familiare e valoriale, piuttosto che frutto di un’appartenenza a logiche delinquenziali” e accoglierle in questo “percorso di elaborazione […] recupero profondo del senso di responsabilità personale e collettiva serve a costruire nelle nuove relazioni […] il senso del rispetto e di un rinnovato senso di fiducia umana e di comunione”. Insomma un “far di veleno medicina”, come lei stessa conclude. Così l’opera della Onlus, suggestivo acronimo di “Evocazioni, Simboli, Tracce Invisibili All’occhio”, è di far toccare con mano che un altro modo è possibile, formando, nel contempo, professionalità pure tecniche, informatiche o artigianali poi spendibili nel reinserimento sociale; quel che si portano a casa i partecipanti è spesso un’esperienza di condivisione anche con utenti extra carcerari, che non di rado li convince a continuare, tornando, loro per primi, nelle strutture di reclusione, una volta scontata la pena.

E’ da oltre una decina d’anni, che va avanti così: correva l’anno 2003. Ed ecco perché “F/e.s.t.i.a.”, una retrospettiva che dal 10 marzo al 13 maggio 2016 accoglie il pubblico direttamente nel teatro interno al carcere – una spettacolare struttura in legno, interamente costruita dai detenuti/artigiani del laboratorio di falegnameria. “Pinocchio”, “Ci avete rotto il caos!”, “Che ne resta di noi?”, “Psycopathia Sinpathica”, “Lavorare… stanca”, “Ora d’aria” e “Camerieri della vita”, i titoli della rassegna, esiti del lavoro corale o individuale dei partecipanti. 

Psycopathia Sinpathica
Psycopathia Sinpathica

Fino a domenica 23 aprile, resterà in scena “Psycopathia Sinpathica”, scritta e diretta da Michelina Capato a partire da “Psicopathia Criminalis” di Oskar Panizza. In fondo solo un gioco; ma uno scherzo feroce. L’alternanza fra video proiezioni dai toni smunti e dai volti austeri, a riprodurre l’asetticità farneticante di una riunione di dottori e infermieri a proposito dell’avvenuto isolamento del “virus” responsabile della “psicopatia criminalis”, e, in scena, la rappresentazione grottesca e carnale, ma poi anche visionaria, poetica e surreale di questi reclusi/pazienti, che, ingentiliti in graziosi pigiamini celeste polvere, restituiscono ciononostante la crudeltà della loro condizione. Poche le parole spese – ma tutte sentite e caricate da una significanza amplificata dalla consapevolezza del luogo –; molte di più le azioni sceniche e corali, che traducono in modo efficace dinamiche relazionali di sopruso, spesso inter pares, prima di tutto. E poi lo iato fra l’ipocrita classe dei “dottori”, visti come “domatori” e “dominatori” – fino alla scena felliniana della dottoressa che porta al guinzaglio i suoi pazienti, bacchettandoli a colpi di frustino e soggiogandoli, fisicamente e psicologicamente come cagnolini ammaestrati ad abbaiare solo il loro consenso -, ma poi svelti nel volta faccia della convenzione sociale. Fino al “Carnage” e a un pianto, che fa crepar dal ridere il paziente shakespeariano fool, che se ne domanda la ragione. Di contro loro: i pazienti/detenuti, che con incredibile sardonica intuizione vengono stigmatizzati in quest’endiadi che dice della profonda continuità di tutte le condizioni di deprivazione. Si muovo compatti, sincronizzati, a volte, come uno stormo eppure talaltra scomposti, solispistici ed individualizzati, come chi sa che ha da vender cara la pelle. Ché l’anima è qualcosa che è bene serbar per sé e nascondere diligentemente, se non si voglia vedersi smascherati da diagnosi farneticanti o dalla rabbiosa e umiliata fragilità dell’altro. Eppure non smettono di fare rete, nelle coreografie ben sottolineate da musiche ad alto impatto emotivo e luci giocate fra il blu sognante e la pioggia di fari freddi a cascata sulle dinamiche circolari del gruppo ad evidenziarli tutti e ciascuno.

Visto a Bollate, il 22 aprile; a seguire, nella rassegna, ancora “Lavorare… stanca”, “Ora d’aria” e “Camerieri della vita”.

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