Teatro, Teatrorecensione — 05/02/2014 at 17:31

Adamo sconfigge Dio: l’ultima “Visita al padre”.

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MILANO – Per affermare la supremazia sul leone vecchio e così scacciarlo definitivamente, nella savana, il leone giovane si accoppia con le femmine del gruppo, dell’harem. Non più di un gallo per pollaio. In uno scenario da post apocalisse, con una fitta neve che scende e copre e ammanta i silenzi e le distanze, in uno chalet disperso nelle montagne e lontano da ogni altra forma di vita, abita una strana comunità i cui legami affettivi-sentimentali-familiari sono flessibili e malleabili, certamente ambigui: figlie naturali, figlie dai precedenti matrimoni, amiche, nipoti, figlie delle amiche di famiglia. Un solo uomo al comando, lo scrittore-traduttore che da dieci anni è immerso nel suo studio matto e disperatissimo nella mostruosità e complessità del “Paradiso Perduto” di Milton.

Campeggiano in alto Adamo ed Eva, l’albero alle loro spalle, la mela in bella evidenza nel palmo di lei. Se nel PP è Dio che scaccia Adamo, qui avverrà il miracolo in terra, l’opposto, il contrario, finalmente Davide che abbatte Golia. Chiamala rottamazione, pensionamento, esodato. Un uomo-punto di riferimento, il solito gigante Popolizio, personaggio in equilibrio tra l’ascesi e la caduta, tra l’arroganza e l’incertezza, saggio, colto ma anche pieno di contraddizioni e insicurezze ed uno stuolo di ragazze, donne, più o meno mature che più o meno ha in pugno, che più o meno dipendono da lui e dalla sua approvazione. Ma non è un padre padrone.

Se nell’arena del Piccolo milanese agiscono le scene all’interno del salone di famiglia, tutto è spoglio, tutto è fuori, niente barocchismi, sul fondale vetrate che permettono una visuale su un altro interno, lontano, imo, in profondità, in prospettiva. Lì, con musiche da suspense, ci sarà sempre qualcuno che osserverà, scruterà, indagherà, vedrà, anche di sfuggita, si insospettirà, delle azioni poco chiare che stanno avvenendo dall’altra parte in una scena che ci ricorda quella dei Peeping Tom in “33, rue Vandenbranden”.

La regia di Rifici ha colonizzato e prefigurato queste due agorà che si guardano, il passato e l’oggi, i rimandi, le promesse, le scommesse, un dietro ed un davanti che si sovrappongono nella visuale ma anche nella curva del tempo, che mai, ci insegna la fisica, è lineare. Come in una piazza dalle tante persiane chiuse ma i cui scuri vedono ombre e corrono le voci. La scrittura di Schimmelpfenning miscela la freddezza statica nordica a vortici di climax e punte da caldo scontro dove una colpa atavica ritorna, con rincorsa, a prendersi il tempo ed il terreno, con effetti deflagranti, perduti.

In questo clima di perfetta armonia con ruoli precisi e definiti, costruita nel tempo, arriva come un sasso lanciato in una vetrata, come un treno in corsa, come una bomba, il figlio Peter, avuto da una vecchia e breve relazione e del quale non aveva mai sentito parlare se non poche settimane prima quando lo avvertiva che sarebbe andato a trovarlo per conoscerlo finalmente. Marco Foschi, aitante e di polso (suona bene anche il pianoforte), ha un ché di misterioso, lascia le domande inevase, contraddice le versioni, cambia discorso, non è chiaro, è opaco, c’è qualcosa che nel suo personaggio incuriosisce e repelle. Forse è un impostore. Come dice Milton prima c’è la tolleranza e poi la repulsione, prima l’accoglienza, anche se si subodora la disfatta e la sconfitta, e poi l’allontanamento.

Piano, piano, riesce a portare dalla sua parte tutte le donne della casa (Anna Bonaiuto è la moglie e, come sempre, carnale e terrena quanto un soffio leggero e forte presenza anche con tocchi e toni lievi), con l’eros, il vittimismo, la vitalità, la fisicità, la gioventù, la freschezza, la novità che irrompe. Il puzzle in un giorno crolla, le certezze assodate si spandono, si lacerano. Lui diventa Adamo, ma anche mela e serpente e Diluvio Universale che rimpasta le carte in gioco, rimescola gli ingredienti di una visione ormai stereotipata e dai ruoli bloccati. Il titano è stato sconfitto, il drago ucciso da San Giorgio, il ciclope assassinato da Ulisse.

Una vita a difendersi dall’esterno, dal di fuori, dalla notte, dalla neve, dal gelo e poi è bastato uno spiffero, una piccola crepa a far venir giù la diga. Peter-Foschi gioca bene le sue carte per trovare un posto nel mondo da maschio dominante, è il Pifferaio Magico che tira e trascina le femmine a sé, è il Cavallo di Troia fatto entrare con tutti gli onori per poi decapitare il potere e prendere il sopravvento. Il suo pregio è non mettersi contro il gineceo che infatti si schiera tutto compatto, superando le gelosie, al suo fianco, anzi difendendolo davanti alla minaccia da parte dell’Orco che perde la razionalità e l’autorevolezza in un colpo solo.

Il Paradiso Perduto rimarrà infatti, appunto, non evaso, non soddisfatto, non tradotto, perché la realtà è stata più forte del Mito e della letteratura. Dio, in terra, in quel piccolo lembo di terra costituita dalla casa nella neve, come Penelope, tramava il giorno per sfilarla la sera, scriveva e disfaceva per non portare a compimento l’opera. In quel quadro, prima dell’arrivo del ragazzo, mancava un Adamo da sacrificare ed al posto di Eva ve n’era una moltiplicazione. Adesso Dio è stato sconfitto, cancellato, cacciato come un usurpatore del trono, come Claudio da Amleto. Il nuovo che avanza.

Visita al padre”, produzione Piccolo Teatro di Milano, testo, scene e bozzetti: Roland Schimmelpfennig, traduzione Roberto Menin, regia Carmelo Rifici, scene Guido Buganza, costumi Margherita Baldoni, luci Claudio De Pace, musiche a cura di Daniele D’Angelo, con (in ordine alfabetico) Paola Bigatto, Anna Bonaiuto, Caterina Carpio, Marco Foschi, Mariangela Granelli, Massimo Popolizio, Sara Putignano, Alice Torriani. Visto al Piccolo Teatro Studio Melato, il 2 febbraio 2014.

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