Teatro, Teatrorecensione — 21/11/2011 at 23:32

A scuola si insegna a vivere liberi. Elio De Capitani porta in scena The History Boys e commuove

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Un’istituzione di mattoni rossi dove si decide il destino degli allievi, in predicato per entrare nelle facoltà universitarie più blasonate del Regno Unito, quali  Oxford o Cambridge. La sala Fassbinder del Teatro Elfo Puccini di Milano, sembra costruita appositamente per ospitare il college inglese, frequentato da otto studenti in cerca di un futuro. Sono giovani, indisciplinati, ma anche dotati di talento e soprattutto adorano il loro mentore, l’attempato professor Hector, docente di letteratura, in realtà più un saggio, in grado di trasmettere loro, la passione per la cultura come realizzazione di una personalità libera. Uomini in grado di discernere senza subire passivamente gli insegnamenti accademici, capaci di vivere nel piacere e nella goliardia scanzonata anche irriverente: una fase della vita che da lì a poco sfumerà per sempre.

È venato di malinconia The History Boys , scritto da Alan Bennett e resa con felice mano registica e scenica, da Ferdinando Bruni e Elio Capitani, nella loro versione teatrale che da ben due anni riscuote un successo da tutto esaurito. In un suo ragionamento Bennett spiega: Ho sempre avuto la sensazione che il meglio è finito anche quando avevo 16 anni”. Nella pièce si nota questo rimando nostalgico, come se quel momento vissuto ora dai ragazzi del college, in realtà fosse già trascorso e volato via per sempre. Uno sguardo all’indietro di come si era un tempo, la nostalgia per una certa anarchia tipica dei ragazzi poco inclini alla disciplina calata dall’alto, a cui Hector, sfugge per primo.

Ideologicamente refrattario ad un modello di insegnamento che sia solo nozionistico e didattico, così come vorrebbe il preside della scuola, Bennett ambienta la vicenda in un sistema educativo –scolastico negli anni del thatcherismo rampante e spiega in alcune interviste, come “gli insegnanti hanno bisogno di sentirsi la fiducia in loro riposta, a cui deve essere consentito un margine di utilizzo della loro immaginazione, altrimenti l’insegnamento perde ogni senso di stupore ed eccitazione”. Due qualità che nel college degli otto studenti, circolano abbondantemente, per la gioia degli stessi ragazzi e del loro professore interpretato da un Elio De Capitani strepitoso nel tratteggiare le inquietudini esistenziali, il sarcasmo come antidoto alla rassegnazione di un destino a cui lui stesso sa di non poter sfuggire, la sagacia e l’eloquio come strumenti per accattivarsi le simpatie dei suoi studenti, ed essere ricambiato.

La sue stessa omosessualità più agita come necessità di sentirsi in vita, piuttosto che come desiderio erotico. Sublimata in aula e metabolizzata attraverso il sapere in grado di infondere linfa vitale, salvo concedersi il vizio di palpare i genitali degli studenti, a cui da un passaggio in moto: unica concessione ad un’esistenza solitaria. Con lui recitano giovani attori così affiatati da commuovere. Ciascuno agisce e incarna il suo personaggio con la massima credibilità che il testo richiede e la regia sa esaltare a pieno. Lo spettacolo non manca mai di suscitare la risata, anche se spesso si ride cogliendo il sapore amaro di come sia possibile soffrire in silenzio (l’amore provato dallo studente gay ed ebreo Posner, e non ricambiato, per il bel Dakin, (Angelo Di Genio che da vita ad un “bello e dannato”, spavaldo e inquieto) il quale a sua volta rivolge le sue attenzioni per Irwin reso bene da Marco Cacciola, l’altro insegnante, figura antitetica ad Hector (accomunati però dagli stessi gusti sessuali, anche se manifestati diversamente), figura poco trasparente e incline più a cercare una propria affermazione, che quella dei suoi studenti. Per ordine del preside deve affiancare il collega anziano.  Personaggio che lo stesso Bennett utilizza per spiegare il divario esistente e realistico (nelle facoltà universitarie italiane è di casa) tra un sapere colto, intellettuale, autoreferenziale, e un apprendimento orientato a crescere più liberi, capaci di cogliere le dinamiche esistenziali, apprezzare il piacere di uno studio  appagante e non formale.

Hector non impartisce lezioni frontali ma si mescola tra i ragazzi, li provoca e li stima per la loro originalità e soggettività. Sono Giuseppe Amato, Marco Bonadei, Angelo Di Genio, Loris Fabiani, Andrea Germani, Andrea Macchi, Alessandro Rugnone, Vincenzo. Il loro professore fa di tutto per insegnare loro a “difendersi dall’istruzione”, e spiegare loro che “studiare il contemporaneo significa studiare la Storia e la vita di Enrico VIII”, convinto assertore nel dire come la “cosa più difficile è far imparare ai ragazzi nel credere che il loro insegnante è anche un essere umano. E poi una delle cose più difficili per l’insegnante è quella di far capire ai ragazzi che non lo è”. Non si trattiene mai con le parole che usa come frecce acuminate, anche quando spiega:  “La cultura è nemica della cultura e il nemico uno della cultura in una scuola è il preside”.

 

 

La regia di Ferdinando Bruni Elio De Capitani fa emergere tutte le contraddizioni giovanili, i sogni, le illusioni, le speranze bene o male riposte, per un domani dove trovare un senso alla loro vita. Ideali infranti davanti allo scandalo che esploderà pubblicamente: Hector viene scoperto nel suo gesto lascivo nei confronti dei suoi “discepoli”, causa del suo licenziamento imposto dal preside interpretato da Gabriele Calindri, severo e integerrimo quanto basta per farsi, a sua volta, scoprire corteggiatore della sua segretaria, in barba alla fedeltà coniugale.  Per non doverlo giustificare sarà costretto a reintegrare il professore. C’è poi una donna, l’unica, in questo college: l’insegnante di storia, Mrs. Lintott, interpretata da Ida Marinelli, incapace di trovare una sua dimensione di pensiero progressista, impaurita forse dall’ambiente prettamente maschile, indecisa nello schierarsi a difesa del collega Hector. L’attrice è perfetta nel suo porsi compassata e fragile allo stesso tempo. D’altronde l’ipocrisia circola abbondantemente  in The History Boys e Bennett sa colpire a fondo con l’abilità che gli compete, mentre la regia restituisce con esemplare maestria il suo pensiero drammaturgico. La scuola dove agiscono tutti i personaggi è un paradigma della stessa società inglese, laboratorio sperimentale ed empirico dove confluiscono i meccanismi alla base di una nazione come l’Inghilterra.

L’umanesimo si scontra con il pragmatismo e i ruoli sostenuti dagli attori sono pedine di un gioco a scacchi, mossi da un giocatore che non appare mai, ma è colui che tira le file. Il finale tragico è la morte di Hector sulla sua moto dove siede anche Hirwin che rimarrà paralizzato. Ascesa e caduta di due uomini destinati entrambi al fallimento. Sopravvive solo la letteratura e la poesia, così amata e difesa dall’anziano professore che gli fa dire: “I momenti migliori in lettura sono quando ci si imbatte in qualcosa – un pensiero, un sentimento, un modo di guardare le cose – che aveva pensato speciale e particolare a te”. La commozione finale è forte tra il pubblico che applaude ripetutamente i bravissimi interpreti, grato di aver assistito ad uno spettacolo che parla un  linguaggio reale, disincantato simile a quello di tutti i giorni. Si esce con la nostalgia sentita sulla scena ma anche un po’ più tristi, per non aver conosciuto un Hector, che ci insegnasse a diventare migliori.

 

The History Boys

di Alan Bennett

traduzione di Salvatore Cabras e Maggie Rose

Uno spettacolo di Ferdinando Bruni e Elio De Capitani

Con Elio De Capitani, Ida Marinelli, Gabriele Calindri, Marco Cacciola, Giuseppe Amato, Marco Bonadei, Angelo Di Genio, Loris Fabiani, Andrea Germani, Andrea Macchi, Alessandro Rugnone, Vincenzo Zampa.

Luci di Nando Frigerio

crediti fotografici Lara Peviani

Teatridithalia

visto al Teatro Elfo Puccini di Milano il 12 novembre 2011

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