editoria, racconti, poesie — 20/06/2015 at 21:10

Un rebus che poteva durare all’infinito

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Eppure la magia non è svanita del tutto. Un  rebus forse mai risolto. Forse destinato a durare all’infinito. Come un treno che non fermerà mai. Così pensava ancora, a distanza di tempo, di mesi, di istanti, di attimi infiniti, superata la soglia di cento pagine spedite per posta elettronica. Come quelle in cui scriveva che la vita gli correva dentro: «Ricambio innanzi tutto con dieci sorrisi per ciò che mi dici nel tuo parlarmi con franchezza ed estrema coerenza. Non mi va concesso nessuno sconto, quando divento ambiguo, ambivalente, e abuso della tua intelligenza. Per cui dopo aver ammesso di aver dato a fondo agli eccessi, torno me stesso e soprattutto quello che riflette con calma e sa dare il meglio di se stesso. Ne sono cosciente e per questo non voglio trovare nessuna giustificazione a riguardo. Tu mi riconosci all’istante, quando mi comporto così. Timidezza che per mascherarsi usa eccedere a volte come mi è capitato. Forse si potrebbe definire meglio come una manifestazione d’ambiguità.
Da quando ci siamo incontrati molte cose sono cambiate per entrambi. Io ho forzato la mano per restarti vicino. Mi sono interrogato per capire quali sentimenti prendevano il posto di altri. Ho provato nostalgia per il tempo trascorso insieme, per le cose che ci siamo scambiati; cose consumate come giustamente affermi tu. Tutto questo mi ha coinvolto in una sequenza d’emozioni, reazioni a volte scomposte come il sopra rigo, altre più malinconiche, ma in ogni modo tutte vissute. Forse è una recita farsesca dove interpreto un personaggio che non mi appartiene, non è reale ma fittizio. Non posso che provare vergogna di me stesso in questi frangenti. Succede, quando l’emotività prende il sopravvento sulla razionalità. Combatto con me stesso, tutto si esaspera e si confonde. Uno stato d’animo riconducibile ad una cosa sola però, la sfida alla morte, che mi distoglie dalla realtà e mi porta a lottare contro un drago che sputa fiamme. Può prendere forma in mille modi: l’essere lasciato solo, sentirsi rifiutato, non essere capito. Vivo in funzione di questo.
Sogno una quantità smisurata e ogni sogno racconta vicende che hanno a che fare con la morte. Mi parla, mi sfida, e io la combatto con tutte le armi in mio possesso. Riesco a percepire ogni pericolo, mi ferma in tempo e mi salva. Sempre.
Mi sono chiesto a questo punto della nostra vicenda cosa fare, come comportarsi, come reagire, me lo sono chiesto e te lo chiedo. Rinunciare a te virtuale per trovare un altro te ma reale? Un falso problema per via che anche prima interagivo con te sapendo che eri anche un altro, quindi non mi sono posto il dilemma di cosa rinunciare. Non sapendo però cosa ti succedeva, o meglio capivo il tuo stato d’animo che non poteva restare insensibile, sono caduto nella trappola tesa da me stesso, di recitare un ruolo che non mi appartiene. Questa è la mascherina di Zorro che ho indossato, la Cenerentola interpretata nella versione tragicomica della favola. Sono arrivato ad arrabbiarmi, per via di sentirmi impotente per qualche cosa che non succedeva. Mi sono arrabbiato di più con me stesso perché ero io a dover decidere e non tu per me.
Non vedo quindi il motivo di fingere, quando so che dall’altra parte posso dire esattamente cosa provo, come mi sento. Non sono Cenerentola, tanto meno Zorro. Ma chi riesce ad amare e combattere la paura, sa dimostrare di essere coraggioso. Corro dentro la vita. Corro sempre dentro. Sto correndo anche in questo momento. Spero di farlo con coraggio e senza paura».

binari

Ti scrivo a notte fonda, la mia insonnia perdura ancora, anche se io vivo volentieri la notte, magica, silenziosa, conturbante; tutto tace, ma il silenzio diventa una musica soave che mi accompagna. Sai da quell’“inciampo” della prima notte insonne vissuta misteriosamente, incollato al mio computer, mi riaffiorano spesso ricordi legati alla mia vita, dove sono diventato un uomo in quella città. Saperti lì ora mi riscalda il cuore di nostalgia per i tempi passati per come ero, felice di sentirmi al mondo, ancora giovane, entusiasta e spavaldo. Vorrei dirti tanto di me, farmi conoscere e spiegarti di più. Scrivo ancora di notte, come quella prima notte, scrivo nella mia stanza, assomiglia più ad un antro stipato di carte, di libri, di dischi e cd, accatastati uno sopra l’altro in equilibrio precario. Disordinato e ricoperto di polvere. Confuso e smarrito. Qualcosa di molto simile a come sono fatto, pieno di tante cose, idee, progetti, ideali, di sogni, mescolati tra loro, senza che vi sia un ordine. Ma forse è meglio così.

Chissà perché? In fin dei conti, cosa sappiamo l’uno dell’altro, un frammento di voce al telefono, un’immagine scambiata e fugace, poco, per la verità, eppure c’è dell’altro. Lo sento. C’è un filo invisibile che mi lega a te, un filo invisibile ma molto resistente. Non si spezzerà a breve. E’ tardi lo so ma sono in ascolto e il rebus prosegue. Non lo sveleremo ancora. C’è tempo per farlo. Laggiù, dove l’aria è libera/saremo ciò che vogliamo essere. /Ora, se ci fermiamo, /troveremo la nostra terra promessa.

Dalla canzone “Go West” le parole per dirti che il nostro laggiù/quaggiù esiste.

Viaggio ancora e il paesaggio scorre veloce, lo vedo riflesso nel vetro. Orridi verdeggianti misti a gallerie nere caliginose, anfratti, rupi, declini boschivi. Non perdo un istante di un viaggio a ritroso; quante volte fatto felice di corsa verso a chi avevo concesso tutto me stesso. La mia gioia di vivere. E’ ancora lì al quinto binario attendere il treno in discesa veloce. Appoggiato alla colonna con sguardo smarrito, cercarmi tra fiumi di gente.

Io solo cercavo. Ripenso al viaggio e scorro la vista su di un treno. Sostava per pochi minuti. E ora forse non sia su quello, nell’istante lo pensi. Oppure aspetti che arrivi per sentire profumi di levante mescolarsi a quelli di ponente. Vorrei salirci e scappare lontano rapito da carrozze di ferro e d’acciaio. Torno nel nero del buco del Vernio di viscere scure. Mi squarcio di senso.

La luce abbagliante ritorna imperiosa. Gli parlo di te, di notti rubate al riposo, di voci assonnate, di micce accese nel cuore, di amplessi soffiati. Mi guarda e sorride di chi capisce. Mi parla, ascolta, si alza e va via, ritorna. “Vivila tutta” mi dice. “Gioca, ama, ma sii felice di stare sulla giostra dei balocchi”. Come non credergli. E poi fa parlare la musica. “Ascolta è tango argentino, sensuale, rapisci e fatti rapire, a patto che sia sogno innocente”. La nave esce dal porto e io la vedo punto fermo all’orizzonte cadere, al di là del cielo. Linea di confine e d’amore sperato. Sarà lo stesso mare. Giù verso il sud lui di là in acque straniere. Ripenso al treno, al gioco infantile di toccare con mano il riquadro appeso. Riparto e vedo bianche divise. Rimango stordito, creature in fila spensierate, usciti dal bianco di un tubetto di tempera acrilica, pennellati nel grigio ferroso . Li guardo. Tornano al mare. Ai giochi d’estate.

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