Teatro, Teatrorecensione — 17/02/2014 at 18:00

Non esiste “Fede, speranza, carità”. La trilogia del fallimento dell’uomo moderno

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PARMA – Una trilogia, si sa, ha il punto forte nella continuità, ed la debolezza nella stanchezza e ripetitività, lo stesso autore, lo stesso tema anche se declinato in modi differenti, gli stessi attori (il limite delle compagnie stabili che nel tempo diventano stereotipate) e lo stesso regista se si tratta di un progetto compiuto, plaudibile certamente, come quello del Teatro Due di Parma, che continua a fornire prove ed elargire idee, su Horvath, dimenticato, abbandonato ed accantonato.

Questa terza prova soffre del difetto di arrivare, appunto, come terza messa in scena, dopo il cupo e nero e nebuloso “Gioventù senza Dio” a due personaggi nel buio e caldo scantinato da prove, e successivamente all’eccentrico ed acceso e illuminato “Fiabe del bosco viennese”, il migliore dei tre step, forse per il suo grottesco intrinseco sul quale Walter Le Moli è stato bravo ed attento nel rovistare tra le pieghe ed esaltarne i tratti allucinati e caricaturali. Da “Fede, speranza, carità” (1937, scritto un anno prima della sua morte avvenuta a soli trentasette anni con una fine tragica quanto evitabile, schiacciato dal tronco di un albero squarciato da un fulmine durante un violento temporale) si tracima in “Fede, Amore, Speranza” la traduzione letteraria dell’originale “Glaube, Liebe, Hoffnung”. Un ritorno alle origini. Le parole sono importanti. Anche le traduzioni.

Se nella traduzione che era passata al senso comune si puntava su quella “carità” che nel titolo tedesco effettivamente non c’è, togliendo anche “amore”, democristianamente parlando, qui ci si riallinea alla fiducia intramontabile nelle istituzioni, proprie dei regimi dove è l’acriticità a forgiare e formare lo spirito dittatoriale e le regole imposte dall’alto come religione, al sentimentalismo, più che altro presunto e di facciata, alla spes che una nuova alba sorgerà, intrisa di nuove bandiere.

La crisi è imminente, profonda, è entrata nelle pieghe del discorso quotidiano, tanto che la gente comune vuole vendere il proprio corpo (lo fa da sempre, si chiama prostituzione), perché solo quello gli è rimasto da mettere sul piatto. Lo vende in vita, ma lo vuole vendere anche post mortem, in una sorta di “nuda proprietà” di ossa, carne, muscoli (ci ricorda la mostra sui cadaveri in plastilina organizzata dal medico argentino Gunther von Hagens, esposizione che è passata da Roma, Napoli, Milano e fino al 30 marzo sarà a Bologna, bodyworldsinthecity.it).

Una donazione alla scienza in cambio di valuta da commercializzare. E qui lo scontro tra la giovane donna (Paola De Crescenzo, figura che catalizza ad imbuto tutte le attenzioni, intensa tranne qualche passaggio leggermente irrigidito), che vuole riciclarsi sul mercato del lavoro, la medicina (ottimo il vicepreparatore Nanni Tormen, in un continuo salto tra l’arrogante ed il viscido), affiliata ed affiancata alle leggi dello Stato, e non alla cura del cittadino, le Istituzioni repressive di controllo sociale, Carabinieri in questo caso. Un trittico con due lati più appuntiti che insistono e fanno pressione sulla base più larga e sempre più accondiscendente perché non riesce a trovare sbocchi. Pochi comandano i molti.

Ruoli più che personaggi, dove ognuno cerca il suo posto nel mondo a discapito, è l’unico modo per poterlo fare, degli altri. Qui il mors tua vita mea è essenziale, fondamentale. E più si immettono gli intoppi della burocrazia, dell’infarcitura delle regole, dell’abbondare delle norme da seguire e perseguire, più che il labirinto si fa inestricabile per chi non ha gli strumenti, o amici nelle sale dei bottoni giusti. Affiorano gli esodati in un mondo-bolla di sapone dove l’unico capo d’abbigliamento che ancora viene venduto è la biancheria intima. Un popolo alla deriva pensa al cibo e al sesso, ritorna primitivo e tenta di soddisfare i bisogni primari in maniera compulsiva. Ci sono le anoressiche e gli obesi. E il mondo corrente e civile non permette nemmeno che il criceto esca dai suoi infiniti giri di ruota: il suicidio, come l’eutanasia, non è permesso, devi produrre, consumare e, infine, crepare, ma lentamente quando non hai più un briciolo di forza da strizzare. Il fiume accoglie solo Ofelia, Marinella e Jeff Buckley.

 

 

Fede, Amore, Speranza” di Odon von Horvath, regia Walter le Moli, produzione Fondazione Teatro Due. Con: Cristina Cattellani, Laura Cleri, Paola De Crescenzo, Francesco Gerardi, Sergio Filippa, Luca Nucera, Massimiliano Sbarsi, Nanni Tormen. Costumi Gianluca Falaschi; Luci Claudio Coloretti. Prima nazionale. Fino al 2 marzo. Visto al Teatro Due, Parma, il 14 febbraio 2014.

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