Teatro, Teatrorecensione — 12/03/2014 at 14:25

Il ritorno a “casa” di Emma Dante. Le sorelle Macaluso al Teatro Biondo di Palermo

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È sempre interessante vedere come il mondo poetico di un artista si possa espandere nel tempo, possa dispiegarsi, aprirsi, scoprire altri territori di forma e senso, appropriarsene e, pur restando fedele a sé stesso, accogliere nella sua trama nuove istanze e suggestioni. “Le sorelle Macaluso”, l’ultimo lavoro di Emma Dante che abbiamo visto a Palermo (e si potrebbe dire finalmente..) nel grande palcoscenico del Teatro Biondo, sede dello Stabile, appare soprattutto notevole, perché pur restando totalmente nel solco della poetica e del linguaggio scenico, di una grande interprete del teatro italiano contemporaneo, sa esser nuovo e fecondo, solcato com’è da elementi di novità che non mancheranno di suscitare altri spettacoli ed altre meraviglie. Una veglia funebre che si svela per quel che è a poco a poco fino a definirsi compiutamente soltanto alla fine: quella di una famiglia di sette sorelle, un padre e una madre e un nipote; una festa e uno schianto, un uscire lento dal buio della vita, un ritrovarsi, tra vita e morte che si confondono, a ripercorrere le gioie e i dolori di una vita vissuta insieme e insieme attraversata, combattendo giorno per giorno la fatica della quotidianità (il segno sono gli scudi da opera dei pupi di Gaetano Lo Monaco Celano), e ancora un attraversare ombre e ricordi che si materializzano in presenze ti mettono le mani addosso e subito scompaiono, fino a quando la morte non si rivela nella sua dura necessità.

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La morte di una sorella, morta bambina al mare mentre si giocava, la morte di un padre amoroso e sudicio di lavoro, un uomo debole forse e lontano, la morte di una madre forte, bellissima e tenera e caduta troppo presto – le loro ombre resteranno per sempre legate in un abbraccio, la morte di un nipote, un futuro nel calcio certo e innamorato di Maradona ma troppo debole di cuore, e infine la scoperta della morte, celebrata in scena, della morte della sorella più grande, di colei che aveva accudito tutti e che, per quella rumorosa e stramba famiglia, aveva finito col rinunciare del tutto a se stessa, al suo sogno grande di diventare una ballerina.

Tutto si ricapitola e chiarisce alla fine, l’oscurità e la luce si fondono e si fondono il nero del lutto e i colori sgargianti dei miseri vestitini estivi, tutto perde peso e tempo, i nodi si stringono, la morte è contemporaneamente “exitus et transitus” come dicevano gli antichi. Apparentemente Emma Dante è ritornata sui suoi passi, ha ripercorso strade di senso che aveva scoperto coi suoi primi spettacolo (‘Mpalermu, Carnezzeria, Vita mia): il vibrare della schiera degli attori, il ritmo come elemento cardine, l’oscurità e i colori che l’accendono, la famiglia come luogo di violenza e di dolore, lo schianto della morte e del lutto, la scelta della musica (d’intonazione popolare e poi classica) a dare profondità e respiro ampio a ciò che accade in scena e ancora il corpo che si disarticola e parla, la poesia aspra del dialetto.

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Tutto: c’è tutto il grumo nero del mondo poetico di Emma Dante in questo spettacolo, ma è una bestia che l’artista ormai ha imparato a riconoscere perfettamente, a maneggiare senza perder l’equilibrio: ciascuno di questi elementi è come rivisitato, come se portasse, con sé, in sé, le tracce di una maturazione artistica avvenuta e certo non ancora esaurita, le tracce di un equilibrio nuovo che le consente di osservare il dolore, capirlo, senza però lasciare che esso si impadronisca della vita. E poi c’è anche molto altro, e molto altro di nuovo: intanto c’è una capacità (nuova) di riempire e far vivere lo spettacolo nello spazio di un grande palcoscenico pur mantenendo l’intensità originaria dei primi spettacoli concepiti in e per spazi scenici di ridotte dimensioni, c’è una nuova pulizia nell’assetto dello spettacolo, c’è la scoperta di una dimensione di pietas familiare che va molto oltre il disagio e la primitiva violenza, come cifra assoluta della famiglia, e incontra l’amore, la tenerezza (esattamente), la gioia, la follia, il desiderio.

Ed ancora la lingua che non è più soltanto il dialetto di Palermo, ma anche quello barese di una delle sorelle e l’accento, siciliano ma straniato e dissonante, di Alessandra Fazzino, quasi a dire che non sono più soltanto le viscere di Palermo a riscaldare e sciogliere la lingua a questo teatro, ma una visione più ampia e consapevolmente più profonda del sud. Tutte molto brave e da citare le sette attrici in scena: la danzatrice Alessandra Fazzino (nel ruolo di Maria, la sorella più grande) innanzitutto, e poi Serena Barone (Lia), Elena Borgogni (Antonella), Italia Carroccio (Gina), Marcella Colaianni (Cetty), Daniela Macaluso (Pinuccia), Leonarda Saffi (Katya), e con esse Davide Celona (Davidù, il nipote), Sandro Maria Campagna (il padre) e Stephanie Taillandier (la madre).

Lo spettacolo è molto bello ma averlo visto a Palermo è motivo di gioia vera. Ed è, soprattutto, motivo di speranza. Emma Dante è stata per anni una voce di riscatto (una voce libera e dolorosa) per gli uomini e le donne che in questi anni hanno scelto di restare a vivere in Sicilia a lottare, ciascuno al proprio posto, perché in questa terra martoriata dalla mafia e da una politica sorda, ignorante e cialtrona si possano avere le stesse opportunità di crescita culturale che altrove. Ha viaggiato, ha girato il mondo col suo lavoro e con lo straordinario e meritato successo dei suoi spettacoli, una nuova generazione di artisti e teatranti siciliani le è sbocciata a fianco ed è cresciuta assorbendo la sua voglia di lottare, prima ancora che il rigore e la forza del suo linguaggio artistico, ma Emma è restata piantata in Sicilia a lavorare anche in spazi improbabili e piccoli teatri di provincia e oggi è artista residente al Biondo Stabile di Palermo: una cosa che sarebbe stata normale già da tempo in un paese civile, ma per anni non è stato così e se oggi è così questo – senza eccedere nella retorica – è segno di una vittoria (piccola, certo) nel contesto di una guerra più grande. Una guerra che non è finita e che però oggi qualcuno ritorna ad aver voglia di combattere.

Visto il 1 marzo 2014 al Teatro Biondo, Stabile di Palermo 

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