Teatro recensione, Teatrorecensione — 04/11/2014 at 21:40

Farà giorno dentro una stanza chiusa

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MILANO –Farà giorno, nonostante tutto. E’ legge di natura”. E’ da questo nodo drammaturgico che gli autori Rosa A. Menduni e Roberto De Giorgi stralciano il titolo della piéce di nuovo in scena al Franco Parenti di Milano dal 24 ottobre al 2 novembre e poi ancora a Roma (7/9 novembre), Napoli (dal 21 al 23) e Torino (18/21 dicembre), per citare le tappe più importanti da qui a fine anno. La trama è facilmente riassumibile parlando di uno scontro generazionale fra due personaggi, che non avrebbero potuto essere più distanti di così: un giovane borgataro, neo nazista più per posa che per consapevolezza ideologica, ed un anziano partigiano, reduce da una vita spesa all’insegna di una spasmodica coerenza ai propri ideali. Poi l’accindens, che dà l’avvio al conflitto narrativo, è il caso fortuito per cui Manuel, furfantello a cui era già stata ritirata la patente, inavvertitamente investe Renato, uscendo in modo cauto da un parcheggio. Impietosito dalla rabbiosa traballante precarietà del giovane, l’ex tipografo accetta di non denunciarlo, in cambio di assistenza domiciliare per l’intera durata della convalescenza.

Lo si intuisce fin da subito, dove andrà a parare lo sciorinarsi della commedia: una sorta di percorso iniziatico, un apprendistato intellettual esistenziale, che inevitabilmente li condurrà ad un avvicinamento. E ci aspettiamo pure che non sia indolore, stante la spiccata personalità dei due. Quel che invece stupisce, ma in senso assolutamente positivo, è la capacità degli attori di tradurlo in un’azione scenica assolutamente credibile e godibile, specie nel primo tempo.  Si gioca tutto in una stanza. Il sipario si apre su un palcoscenico ingombro di mobili sovradimensionati, evidentemente datati e stipati entro un ambiente troppo angusto per poterli ricevere in modo adeguato. Proprio come le case dei vecchi, dove non di rado tutto è accatastato, e che odorano di quel tanfo di stantio, spesso causato dai libri.

Alberto Onofrietti Giancarlo Tedeschi
Alberto Onofrietti Giancarlo Tedeschi

E ce ne sono tantissimi, nell’appartamento di Renato: impilati ovunque, quasi cumuli votivi alla sbiadita effige del Gramsci, che troneggia sulla parete centrale. In questa cornice s’inseriscono Manuel, interpretato da un Alberto Onofrietti dalla fisicità talmente credibile da risultare quasi un energumeno, nonostante il suo reale metro e settantacinque, e Gianrico Tedeschi, esile, nella fragile figura di anziano allettato, eppure dall’arguzia sottile e tagliente come solo sa essere la mente dei vecchi, quando la natura concede loro una senescenza lucida ed indulgente. Si va avanti per quadri scanditi dal ‘buio’, come lo si chiama con termine tecnico, che, in un sottile e a tratti pirotecnico scambio di reciproci lazzi, arguzie e boutades, gradualmente svela l’indole dei due, modificandone l’approccio reciproco. Non più “nonne’”, ma “Rena’”, diventa il diverso modo di rivolgerglisi da parte del ragazzo; ed anche lui, il vecchio, comincia a giocare con quella parola “camerata”, che probabilmente gli costa non poco, suscitandogli pungenti ricordi di militanza. Già perché la vita non è mai quel che ci si aspetta. “Ha da passa’ ‘a nuttata”, diceva, Eduardo, nella sua “Napoli milionaria!”. L’allusione, lì, era ad un tempo lungo, ma certo da far trascorrere prima di un esito incerto; qui, al contrario, la speranza lascia il posto alla certezza. Qui “E’ legge di natura” che “Farà giorno”, pur “nonostante tutto”.
E, così, dopo essersi approcciati, annusati, raccontati, confidati e poi ancora compresi, accolti, scelti, snidati, il secondo tempo ci offre la variante dell’introduzione del tertium: l’improvviso ritorno dal Darfour di Aurora, la figlia che Renato non vedeva da trent’anni. E l’equilibrio inevitabilmente si spezza.
In realtà quel che si modifica è l’efficacia dell’operazione drammaturgica: e non tanto per la rottura di quel botta/risposta, che del resto aveva già raggiunto il giusto ritmo nel primo tempo. Quel che balza all’occhio è il diverso registro recitativo di Elisabetta Femiano, pur brava, ma giocato su un approccio un po’ più (melo)drammatico rispetto alla restituzione pop realistica, di cui si sono resi capaci sia Onofrietti, che il versatile agé Gianrico Tedeschi. Certo, tecnicamente il racconto si era oramai esaurito e solo questo tipo di escamotage poteva consentirne un ulteriore sviluppo. Resta da chiedersi se un’operazione di asciugatura delle pur godibili battute del primo tempo, non avrebbe permesso di toccare le medesime tematiche in modo più conciso. Chissà che il riuscire ad anticipare l’entrata di Aurora, la figlia immolata da Renato ai propri ideali di irreprensibilità morale, non avrebbe consentito di pagarlo in modo più efficace, quel debito nei confronti di un ‘corvo bianco’, che l’ex partigiano ha finito per saldare al ‘corvo nero’ – come recita appunto il testo. Resta immutato il giudizio di una drammaturgia comunque arguta e non priva di spunti di riflessione, a tratti sottili, sebbene poi prevalga l’intento anche ludico della commedia, che diverte.

Visto al Teatro Franco Parenti di Milano il 24 ottobre 2014

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