Anna's corner — 04/04/2014 at 13:38

Buon compleanno Marguerite! Ricordando la Duras (e Marisa Fabbri)

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Il 4 aprile 1914 nasceva a Saigon Marguerite Donnadie (che prenderà lo pseudonimo di Duras) da insegnanti francesi trasferiti nella colonia indonesiana, entrambi vedovi. La biografia fatta di viaggi e lunghe residenze tra Hanoi e Phonm Penh e in terre vicino al fiume Mekong lascerà un segno indelebile nella memoria della Duras “Non posso pensare alla mia infanzia senza pensare all’acqua. Il mio paese natale e una patria d’acque. E di foreste.

Celebrazioni, proiezioni dei film tratti dai suoi romanzi (e che lei stessa riscriverà per il cinema), incontri. mostre fotografiche e spettacoli sono previsti in tutt’Europa a partire dall’evento Marguerite DURAS Un siècle de présence Toute une vie j’ai écrit.

Con Le square (1956) si inaugura la produzione teatrale di Marguerite Duras. Moderato cantabile (1958) vende subito 500.000 copie, nel 1960 Peter Brook gira a Blaye, sull’estuario della Gironde, il film Moderato cantabile con Jean-Paul Belmondo e Jeanne Moreau. Con questo romanzo la Duras inaugura un lungo periodo di sperimentazione  (nella quale appariranno i suoi lavori più importanti e conosciuti, dal “ciclo” di Lol V. Stein a quelli che sono i capolavori degli anni Ottanta, Il doloreL’amanteOcchi blu capelli neri), legato al Noveau roman, un movimento letterario francese tra i cui esponenti figura anche Alain Robbe-Grillet. L’ultimo romanzo di Marguerite Duras ”La maladie de la mort” diventa una piéce teatrale che Bob Wilson porta in scena nel 1996. Interprete principale, la grande danzatrice e coreografa newyorkese Lucinda Childs accanto all’intramontabile Michel Piccoli. 

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L’episodio chiave della sua prima giovinezza è del 1929: mandata a Saigon per frequentare il liceo francese vive in una piccola pensione, e incontra il giovane e ricco cinese  raccontato nel romanzo L’amante. Duras è anche l’autrice della sceneggiatura del film del 1959 Hiroshima mon amour diretto da Alain Resnais.

Nel 1933 rientra definitivamente in Francia dove studia filosofia, 6 anni dopo si sposa con Robert Antelme e vanno a vivere nell’appartamento al 5 di rue Saint-Benoit a Saint-Germain-des-Pres, dove si radunerà un cenacolo di scrittori, letterati e intellettuali. Fanno entrambi parte della resistenza e Antelme verrà deportato a Dachau nel 1944. Nella primavera del 1945 poco prima della resa tedesca, Marguerite Duras che nel frattempo si è sposata con Dionys Mascolo da cui ha avuto un figlio, scrive il diario dell’attesa: Il dolore. Antelme viene miracolosamente ritrovato da Mitterand nel lager di Dachau. A questo episodio e a questo diario fa riferimento il lavoro teatrale Il dolore nell’adattamento di Andrea Balzola – che si è avvalso della traduzione originale di Monica Rapetti – per la regia di Mauro Avogadro, con Marisa Fabbri unica magistrale interprete, stato prodotto dal Teatro Stabile di Torino debuttò il 2 marzo 1999 al Teatro Carignano. 

Del testo letterario Andrea Balzola dirà: “Il testo di Marguerite Duras non è digeribile. Lei stessa ha dovuto dimenticarlo per poter continuare a vivere…E’ il dolore dell’attesa e il dolore del ritorno. Non sono parole, è respiro, battito cardiaco, ansia, soffocamento, rabbia, angoscia, solitudine allo stato puro. Non è letteratura, è vita. Un delirio lucidissimo, perché in queste pagine c’è anche una limpida radiografia di come le ragioni della politica post bellica abbiano prevalso anche in quella circostanza su migliaia di vite umane, di come l’ipocrisia della Destra gaullista abbia gestito la fine della guerra, celebrando se stessa e tacendo sull’Olocausto. alla fine della propria vita, come dono del proprio dolore, non alla memoria ma per un presente più consapevole“. 

Viene spontaneo l’accostamento di questo testo della Duras con scrittori che di torture, reali o immaginarie, hanno parlato – Henry Alleg, l’uruguaiano Mario Benedetti – o registi e interpreti come il Living Theatre che quel dolore lo hanno presentato in scena con una crudeltà che è inscritta, innanzitutto, nell’evidenza della sua esistenza nel mondo. Un dolore che si manifesta come una ferita aperta non ancora rimarginata, attraverso una scrittura estrema, impossibilitata a raccontare di più e oltre quell’essenziale e terribile verità che la follia del mondo ha prodotto. La Duras ha la capacità di rendere contemporaneamente concreto e assoluto quel dolore: la parola, rigorosa e inequivocabile, insostenibile, come la scossa prodotta dall’elettrodo conficcato nei genitali del torturato, dà voce alle urla dei deportati di tutte le guerre, alle vittime di ogni intolleranza, pregiudizio razziale, proiettando il ricordo in una dimensione che scavalca il tempo e la memoria storica dell’Olocausto. La scrittura della Duras non è solo scarna. È carne viva, è materia cellulare che respira colta nella sua distruzione quotidiana: partecipe in prima persona del dramma, ha acquisito la facoltà di sentire, di ansimare, di soffrire. Passa dalle sue breve frasi, a brandelli come il corpo che arriva dal lager, tutta la gravità di un’attesa che è già dolore. Di quel corpo inerme, privato di tutto, narra le vicende sanguigne, i bisogni fisici, solidarizza con ogni porzione della sua forma scheletrica, con il suo istinto primario di conservazione (la ricerca del cibo, la persistenza della memoria). Il rigore della forma con cui la Duras dà corpo a una vicenda illeggibile,è crudeltà nel senso artaudiano del termine: è la vita in ciò che essa ha di irrappresentabile; le parole comunicano quella verità inaudita della progressiva deriva dell’uomo a tollerare l’intollerabile.

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Come la scrittura della Duras è parte stessa del corpo violato, così la voce della Fabbri si rivela come un tracciato elettrocardiografico in costante oscillazione: comunica il senso estremo di una lotta senza tregua alla terribilità dell’attesa di una morte o di una vita, attraverso un convulso vomitare di parole, quelle dette, quelle pensate, quelle impresse sul foglio della macchina da scrivere. Tutto accade in una stanza, ridotta ai suoi segni essenziali, come quell’esistenza di cui va a raccontare l’immobilità generata dalla lunga permanenza sul baratro dell’attesa.
Non vediamo materialmente il ritorno dell’uomo dal campo di concentramento ma le parole della Duras – e la voce della Fabbri – sono altrettanto concrete, fisiche e ripugnanti nelle loro descrizioni, come lo è il cadavere – “la forma” – da resuscitare. Nella resa teatrale non rimane più alcuna traccia di un tempo determinato: quel dolore che ci riguarda – metafora di un oggi/sempre – racconta di sofferenze antiche e di tragedie recenti e si traveste ora nell’agonia dell’attesa, nel supplizio della speranza, ora nel terribile atto di accusa di chi lucidamente valuta l’esperienza del dramma personale alla luce di una tragedia globale che chiama in causa l’uomo, o meglio l’assenza di ogni umanità.
Contro l’abitudine all’indifferenza, contro l’ingessamento della memoria, contro la mutilazione del passato, nel racconto della Duras, il ricordo del dolore quale appare nella scrittura scenica di Andrea Balzola, si impone come cicatrice che segna la coscienza collettiva e insieme come valore da conservare, da condividere e comunicare. Nel presente.

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